di Chiara Di Nicola
“Per la legge di Keplero,
il tuo colpo vale zero!”
“Per la legge di Euclide,
ride bene chi alfin ride!”
Questo scambio di battute dal sapore vagamente “scientifico” è quanto ho conservato nella mia memoria del lungo scontro a suon di spade e aforismi tra Vituccio e Cleonte. “Chi erano costoro?” si chiederanno i lettori-visitatori del mio museo…
Il mio primissimo ricordo del mio incontro col teatro risale senza dubbio alle elementari, quando si presentò l’opportunità di mettere in scena l’ironica opera teatrale in rima scritta dal papà di E., una mia compagna di classe, “La Zuffa di Scorticalezucche” appunto. Lavoro piuttosto imponente per una scolaresca, considerando la lunghezza dell’opera e il numero dei personaggi da portare in scena, raccontava le gesta eroicomiche di Vituccio e Cleonte, due re da operetta impegnati a dichiararsi guerra per questioni di prestigio, che però si rivelavano sostanzialmente simili tra loro e infine disposti a far pace date le loro scarse abilità belliche. La commedia si concludeva alla tarallucci e vino, con una pacificazione generale dei belligeranti, e forse anche un matrimonio tra i figli dei due re. Alcuni versi della commedia sono ancora con me dopo tutti questi anni (talmente tanti che non starò a specificarne il numero…): ricordo perfino qualche riga del mio copione, in cui
“si dicea che Vituccio era pur bello/
ma ben piccino senza lo sgabello!”
A me era toccato infatti un ruolo che trovavo personalmente soddisfacente, quello di secondo narratore: significava non dover recitare come la maggior parte degli altri, non essere davvero al centro dell’attenzione, cosa che mi avrebbe messo abbastanza in imbarazzo, ma partecipare quanto gli altri e – in un certo senso – in un “a solo” che mi vedeva comunque protagonista. In fin dei conti, si trattava di un monologo, quindi non potevano esserci grandi imprevisti dato che non avevo interlocutori con cui rapportarmi. Ben altra situazione era quella di E., che non aveva alcun sostituto per il suo ruolo, perché era l’unica che avesse imparato tutta la parte, molto lunga e impegnativa, di Vituccio: lei stessa l’aveva studiata perché aveva interpretato lo stesso ruolo anche nell’allestimento organizzato con una sua comitiva di amici del quartiere. E purtroppo E. – in quel lontanissimo giugno di tanti anni fa – si ammalò e non fu possibile riassegnare la parte; la recita saltò e il mio primo contatto col teatro si chiuse con un fallimento.
Fallimento? Non proprio…si era ormai accesa una grande curiosità verso quel mondo di fantasia, che mi ripromettevo di tornare a visitare.
Gli anni delle medie trascorsero senza momenti significativi per quanto riguardava il mio rapporto con il teatro ma alle superiori le cose cambiarono radicalmente. In parte grazie alle varie autogestioni, durante le quali nascevano invariabilmente gli effimeri “corsi di teatro” guidati dalle (poche) studentesse che studiavano recitazione al di fuori della scuola, a cui partecipavo interessata, nonostante la mia timidezza, ma cercando poi di defilarmi il più possibile dalla parte pratica. Ma fin dai primi mesi del mio quarto ginnasio fu un’altra l’esperienza fondamentale di quegli anni: qualcuno (insegnante, alunno, bidello?) passò a chiedere nelle varie classi se ci fossero studenti intenzionati ad abbonarsi alla stagione teatrale dell’ATAM, l’Associazione Teatrale Abruzzese Molisana, che proponeva un’offerta scontata per le matinée al Teatro Comunale. Quell’anno aderimmo in otto, ma già da quello seguente rimasi l’unica della mia classe ad abbonarsi (sull’ultimo abbonamento si può anche notare la scritta a matita che avevo fatto, III E). Proseguii da sola – in direzione ostinata e contraria – fino in quinto superiore, adattandomi anche a sedermi vicina ai compagni di classe di mio fratello, due anni più piccoli, che invece partecipavano piuttosto numerosi agli spettacoli, ma sentendomi profondamente più grande e matura del resto della combriccola.
E che ci fosse effettivamente bisogno di un po’ di maturità e di consapevolezza fu chiaro quando un capocomico, durante una rappresentazione in lingua originale della Mandragora di Machiavelli, si interruppe e si rivolse al pubblico di mocciosi e meno mocciosi che strillavano e ridacchiavano per l’argomento “licenzioso” della commedia. Spiegò con molta serietà che gli attori stavano lavorando e che chi non gradiva l’opera era cordialmente invitato (ma si espresse con maggior rudezza) a lasciare la sala. Il clima tornò accettabile e la rappresentazione si concluse senza altri incidenti di percorso. Ma quell’episodio non fu niente rispetto a quanto si verificò con Orgia di PierPaolo Pasolini. Una pièce concepita per soli 3 attori, Uomo, Donna e Ragazza – come il visitatore potrà controllare nella verde locandina dell’epoca, che espongo nel mio museo – e che prevedeva che Ragazza fosse completamente nuda in scena piuttosto a lungo. Fu il caos: non ci furono rampogne o richiami all’ordine, quella volta, ma ricordo ancora con chiarezza che fu una rappresentazione quantomeno…burrascosa, sì, forse l’eufemismo giusto è questo.
Questo repertorio eterogeneo e difficile, però, indicava che l’ATAM sceglieva di presentare anche spettacoli non esattamente tarati per un pubblico di liceali con gli ormoni in subbuglio, e che quindi implicitamente sceglieva di dare fiducia a noi ragazzi: ci proponeva opere piuttosto impegnative e complesse, e non le scontate commediole alla Buccirosso che si sarebbero poi presentate con una certa frequenza in questo inizio di secolo, nella prospettiva di far crescere un pubblico più maturo e di mentalità più aperta, impresa non facile in una cittadina di provincia. Per cinque anni, immancabilmente, mi sono recata a teatro e al termine degli spettacoli ho chiesto ai bigliettai di poter avere la locandina esposta nell’ingresso; per cinque anni, ho aspettato gli artisti a fine rappresentazione, tra la sala d’accesso al teatro e la strada in cui si apriva l’ingresso di servizio, per chiedere un autografo sulla locandina e fare i miei complimenti, in realtà senza aver alcun interesse a conoscere le varie “celebrità” o a scattare una foto con loro, ma solo con la volontà di garantirmi un segno tangibile, la prova provata di quell’esperienza che avevo vissuto in modo totale; per cinque anni, mi sono accoccolata alla meglio nelle scomode poltrone del teatro comunale e ho cercato di trarre il maggior piacere possibile, nonostante il chiasso e le difficoltà dell’adolescenza, dalle opere che ho visto rappresentate, sperimentando allo stesso tempo un’ampia gamma di emozioni: sono stata di volta in volta francamente
sconcertata da Ubu incatenato e re di Jarry, divertita e meravigliata dal rutilante Sogno di una Notte di Mezza Estate portato in scena da Brachetti, tristemente colpita dall’Antigone di Anouilh con Pamela Villoresi di cui sento ancora risuonare il richiamo melodico, cantato come un ritornello nel corso dell’opera, o ancora stupita e affascinata dalla Vita di Galileo di Brecht (ma quest’ultimo lavoro merita un capitolo a sé per il grappolo di ricordi che lo accompagna). Le locandine e gli abbonamenti che i visitatori curiosi potranno osservare nei dettagli grazie alla lente di ingrandimento, a loro disposizione a fianco alla teca, sono tutti pezzi originali dell’epoca [tranne un paio, lo confesso, e cioè Trappola per topi – in cui recitava anche E.D.E., che molti anni prima aveva frequentato il mio stesso liceo – e Piccoli Crimini Coniugali di Schmitt, che mi aveva intrigato moltissimo: entrambe le rappresentazioni appartengono al terzo millennio]: qui e lì sui poster, potranno anche riconoscere nomi eccellenti come quelli di Mario Monicelli o Milva, di Raffaele Paganini o Ninetto Davoli, di Claudia Cardinale o Nicola Piovani, oppure l’autografo o la dedica personale di qualche attore più o meno famoso. Sfortunatamente, non tutte le locandine che avevo meticolosamente raccolto sono riuscite a scampare alle cicliche ondate di repulisti materno che, in quegli anni, colpivano la mia cameretta, ma il visitatore potrà agevolmente immaginarsi le originali dimensioni (forse triple) di questa arrotolata collezione della mia adolescenza.
Devo fare una premessa necessaria, dovuta: Brecht l’ho sentito per la prima volta recitato da un attore nell’aula magna del liceo classico di Teramo. Non proponeva Vita di Galileo ma le sue poesie. E non le proponeva limitandosi a leggerle, magari con una voce impostata alla Gassman e un’espressione snob e compiaciuta da fine conoscitore: no, lui le recitava. Ricordo ancora che cominciò a recitare i versi girato di spalle verso il pubblico, con le braccia serrate attorno al corpo; ricordo la sua voce che raggiungeva noi ragazzi solo dopo aver rimbalzato contro la parete di fondo dell’aula; ricordo che prese a ruotare su se stesso, per rivelarci lentamente il suo volto brizzolato e barbuto e poi lanciarci occhiate inquiete e intense, come se rivolgesse le sue parole ad ognuno di noi singolarmente.
Non ricordo più quale fosse l’occasione specifica per cui l’attore si trovava nella mia scuola, né se il suo recital fosse interamente incentrato su Brecht, ma lasciò un’impronta duratura e mi predispose all’incontro con Vita di Galileo in teatro di lì a qualche mese. Alcune battute dei dialoghi tra Andrea e Galileo mi arrivarono così tanto dentro da spingermi a cercare un pezzo di carta e una penna nel buio della sala, tastando a caso nella borsa, per potermi appuntare certe parole e non rischiare che andassero perdute nel corso del dramma. Non è purtroppo presente nella collezione la locandina dello spettacolo che vidi in teatro: al suo posto, invece, compare il libro che un paio di anni dopo, ormai all’università, lessi per un esame di letteratura tedesca. Poiché quest’opera mi ha accompagnato negli anni, ritornando a parlarmi in tante fasi della mia vita, vorrei regalare ai miei visitatori una delle frasi che scrissi alla cieca durante lo spettacolo, sperando che li accompagni anche una volta usciti dalle sale di questo piccolo museo.
Andrea: “Sventurata la terra che non ha eroi.”
Galileo: “No, sventurata la terra che ha bisogno di eroi.”
Quand’ero studentessa de “La Sapienza” ho potuto partecipare ad alcune iniziative culturali organizzate dall’ADISU: quando andavo alla mensa di via De Lollis, infatti, mi capitava di imbattermi in alcune locandine che avvisavano di visite guidate (è stato così, ad esempio, che ho visto le mostre su Toulouse-Lautrec e sui capolavori del Guggenheim) o di spettacoli teatrali a prezzi ridotti per gli studenti. Quando ho potuto, ho coinvolto in queste serate una mia carissima ex-coinquilina, L., con cui avevo condiviso la casa e anche diversi interessi: data la difficoltà di muoversi con i mezzi pubblici di sera, soprattutto per lei che abitava in una zona un po’ fuori mano, non abbiamo potuto approfittarne spesso ma siamo riuscite comunque a vedere alcuni spettacoli nei principali teatri romani a prezzi decisamente abbordabili anche per due studentesse squattrinate come noi. La nostra prima volta fu al Teatro Argentina, per Quando si è qualcuno di Pirandello: mentre ci sistemavamo nel nostro palco e guardavamo lo scintillio dorato intorno a noi, L. commentò: “se anche lo spettacolo non dovesse essere un granché, comunque valeva la pena di vedere l’interno del teatro!” E in effetti, quella volta, lo spettacolo – per quanto vi recitasse un mostro sacro come Giorgio Albertazzi, che purtroppo non ci impressionò con la sua performance – non lo trovammo all’altezza della sua cornice. La seconda volta, invece, andammo al Piccolo Eliseo: la pièce non prometteva grandi emozioni, due soli attori in scena, non più giovani, e anche il titolo, Gin Game, non suscitava risonanze di alcun tipo. Eppure quei due attori, Massimo De Francovich e Valeria Moriconi (che potete vedere chiaramente ritratti nel flyer che riportai a casa per non dimenticare la serata), furono una rivelazione: non soltanto sapevano reggere benissimo il palco ma tennero anche viva la nostra attenzione con i loro dialoghi serrati ed estremamente coinvolgenti fino all’applauso finale. La nostra terza uscita invece ci portò a confrontarci con uno degli autori del Gotha del teatro mondiale, Anton Cechov: a indurmi a scegliere proprio quello spettacolo, Tre Sorelle, fu il fatto che ci recitasse Pamela Villoresi (che mi era tanto piaciuta nell’Antigone di Anouilh, come ho già accennato)…ma anche stavolta, ahimé, il lavoro non si rivelò all’altezza delle mie aspettative, per quanto non fosse del tutto malvagio. Per puro caso, quella sera, durante l’intervallo, mentre eravamo nel foyer, ci imbattemmo nel marito di una mia zia, attore teatrale e nipote dei celebri fratelli Giuffrè, anche lui lì per assistere allo spettacolo, invitato da qualche collega a titolo gratuito. Mi chiese cosa ne pensassi della rappresentazione in corso e, anche se un po’ titubante di fronte a un professionista del settore, vista la mia pressocché totale ignoranza da spettatrice senza alcuna cognizione di causa, mi lasciai andare a una risposta sincera, visto che si trattava in fin dei conti di mio zio: “Se devo essere sincera, a me pare che manchi di ritmo.” E lui, piacevolmente stupito dal mio inatteso commento, mi sorrise e aggiunse: “È mancanza di regia, Chiara: quella che tu chiami mancanza di ritmo è mancanza di regia.”
Questo insolito paio di mattoni dipinti di giallo e di blu (gli unici colori a disposizione quel pomeriggio) sta a ricordare il giorno in cui io e G. ci recammo appositamente al teatro Vascello di Roma, che all’epoca rischiava la chiusura per importanti tagli al budget; anche noi volevamo contribuire ad erigere un piccolo muro di speranza proprio davanti al teatro, che serviva a ricordarne ai passanti il ruolo irrinunciabile nella vita di una città: chiunque voleva rispondere all’appello poteva presentarsi al teatro, offrire un piccolo contributo economico e aggiungere al muro un simbolico mattone, eventualmente decorandolo o corredandolo di un motto o una frase, più o meno significativa. Il teatro è ancora lì.
Questa didascalia potrebbe essere il titolo di un romanzo di Pamuk, incentrato su un fantomatico tagliacarte-feticcio, appartenuto per esempio ad una bella ragazza di una tranquilla famiglia di Istanbul, i Gabor, appunto, residenti nel quartiere di Çukurcuma, suicidatasi magari proprio con questo tagliacarte dopo una snervante storia d’amore (e dopo troppi capitoli, probabilmente). Ma anche la foto presente nella teca n. 9 potrebbe essere stata presa da uno dei suoi romanzi-museo, o da uno di quei giornali turchi che negli anni ‘70 cancellavano gli occhi dai volti delle donne pubblicati sulle loro pagine. Ma questa superficiale somiglianza si rivelerebbe del tutto fuorviante per i miei futuri visitatori e credo sia doveroso aggiungere un lungo chiarimento.
Dietro a questa fotografia c’è una storia del tutto diversa: tutto è nato dall’idea bizzarra di una giovane coppia romana, musicista lui e counsellor (e mia compagna di università) lei, appassionati organizzatori e fruitori di “cene con delitto”. Assieme ad un gruppetto di amici amanti come loro di queste situazioni a metà tra il giallo e il gioco di ruolo, hanno creato La Famiglia Gabor, una piccola compagnia di attori dilettanti, e dato vita ad un giallo interattivo con una formula ad invito tramite email. Hanno adattato alcuni personaggi presi da copioni di cene con delitto già da loro recitate e da lì sviluppato e poi provato un nuovo copione, che prevedeva però anche l’apporto del pubblico e una buona dose di improvvisazione da parte loro. Erano previste solo 3 date, nei locali di una associazione culturale dalle parti di via Nomentana (nella foto si intravedono gli scaffali pieni di libri e una delle “porte di scena”), con posti limitati vista la non eccezionale capienza della sala.
Riuscii a fare un salto a Roma proprio in occasione della terza replica, l’unica pomeridiana che mi permetteva di ripartire per casa in tempo per l’autobus, e arrivai in Vespa col mio fidanzato dell’epoca, sempre G., sfidato a singolar tenzone per l’occasione: avida lettrice fin da ragazzina di Agatha Christie, S.S. Van Dine, Ellery Queen e Arthur Conan Doyle, ma anche assidua spettatrice televisiva di gran parte delle detective stories e dei polizieschi che non prevedano grandi spargimenti di sangue (a partire da quelli, amatissimi, degli anni ’70, come il Tenente Colombo o Quincy o la Signora in Giallo, per finire con i più recenti Motive, Grantchester, Law and Order o ancora Monk e Psych, dal taglio più comico o stralunato), mi proponevo di risolvere il giallo in barba al mio ragazzo, e anche lui avrebbe cercato di battermi sul tempo nell’individuare il colpevole. La posta in gioco era una cena, se ben ricordo…ma in realtà, nel nostro rapporto di coppia “fraternamente competitivo”, il vero premio era dimostrarsi più abile dell’altro (e soprattutto poterlo poi rinfacciare allegramente all’occasione nei secoli dei secoli: “Ah, quindi avresti ragione tu?! Proprio come quella volta che non avevi capito chi era l’assassino mentre io invece sì!” Ah, l’amore!!!)
All’ingresso trovai B., una cara amica della mia compagna di studi, che avevo già incontrato ai tempi dell’università, che ci diede i biglietti e insieme un pieghevole che conteneva
1) il dramatis personae tipico di certi gialli classici,
2) la mappa del luogo del delitto e
3) la parte staccabile in cui andavano inseriti a) il nome dell’assassino e b) il movente dell’omicidio.
Ci sistemammo in primissima fila (non volevo perdermi nessun indizio!) e ascoltammo la spiegazione iniziale in cui ci chiarirono come avremmo “giocato” a fare i detective: per vincere il misterioso premio messo in palio dalla compagnia era essenziale, infatti, nell’indicare la soluzione, fornire il movente giusto del delitto (“Diciamo che anche nelle altre repliche qualcuno ha indovinato chi fosse il colpevole…ma poi la differenza la fa soprattutto l’essersi avvicinati il più possibile al movente giusto!”). E – ulteriore sorpresa – ci sarebbe stato anche un altro premio assegnato dalla compagnia a fine spettacolo. Carichi di attesa, tutti gli spettatori seguirono con attenzione gli strambi personaggi che si presentarono a noi come i pazienti riuniti nella sala d’attesa di un famosissimo psichiatra, ben presto eliminato in un fuori scena da uno dei presenti. Naturalmente, i personaggi non si limitarono a interagire tra loro ma coinvolsero anche il pubblico: caso volle che anche G. venisse coinvolto come attore perché chi aveva il ruolo dell’esaurito allenatore di una squadra di calcio lo aveva chiamato a recitare, apostrofandolo come fosse un suo giocatore! La mia amica L. aveva la parte di Cleo(patra), una donna che teneva in casa un coccodrillo del Nilo, convinta di essere l’antica regina d’Egitto e sempre pronta a gettarsi con fare predatorio su questo o quell’uomo tra il pubblico; l’altra ragazza che conoscevo, B., interpretava invece il ruolo dell’assistente dello psichiatra e cercava – inutilmente – di gestire i vivaci battibecchi tra i pazienti; il marito della mia amica invece, dopo aver vestito brevemente i panni del dottore, si dedicava alle musiche di scena in qualità di tecnico. Ad un certo punto della storia, si aggiunse la figura di un ispettore di polizia, chiamato ad indagare e a provare a rispondere alle nostre domande di spettatori. Feci anch’io una domanda in quell’occasione, perché una frase detta da un personaggio mi era sembrata troppo vaga. Una donna aveva affermato di essere andata sul terrazzo e di aver saputo a quel punto delle cose molto interessanti, senza però poi fornire neanche un esempio di queste “cose tanto interessanti”: mi aveva ricordato il modo in cui la Christie, in alcuni dei suoi gialli più famosi come ad esempio “L’assassinio di Roger Ackroyd”, porta il lettore – senza mentirgli esplicitamente, ma per semplice omissione – ad attribuire un significato ulteriore (sbagliato!) ad una frase (in quel caso, se non erro, la frase nel romanzo era “feci quello che dovevo fare”…cioè?).
Non ero sicura che fosse un dettaglio importante, perché ritenevo più probabile che fosse solo un errore dovuto a distrazione durante la fase di adattamento della storia originale: un semplice filo rimasto appeso, come quelli che emergono dai libri cuciti di Maria Lai. Ma qualcosa mi lasciava insoddisfatta in quella frase: mi feci coraggio e chiesi all’investigatore cosa avesse scoperto di tanto interessante sul terrazzo quel personaggio. L’ispettore, che stava in piedi proprio di fronte a me, sgranò gli occhi azzurri bistrati di nero e poi sollevò la cornetta del telefono che era lì vicino: parlottò brevemente con qualcuno, riattaccò e poi mi disse: “Se vuoi conoscere la risposta a questa domanda, trovati stasera fuori dalla porta di questo locale alle 22 in punto.”
Rimasi interdetta. Avevo centrato il bersaglio o invece avevo irritato l’attore perché avevo puntato l’attenzione su un dettaglio non integrato a dovere nella storia? Ci rimuginai su, mentre mi rendevo conto che con la mia domanda avevo suggerito probabilmente a tutta la sala su chi appuntare i sospetti. Era ora di riempire i foglietti staccabili con le nostre possibili soluzioni: per un po’ traccheggiai con la penna, giocando con G. a coprire con la mano le risposte – lasciate ancora in bianco – come due compagnetti di scuola che cercano di copiarsi il compito a vicenda, mentre tentavo di figurarmi un movente plausibile per quel personaggio. Beh, uno in effetti l’avevo trovato e per me era plausibile, ma certo ci voleva una discreta dose di immaginazione…e se avessi sbagliato proprio il movente, dopo aver indirizzato i sospetti di tutti sul colpevole giusto?!? Alla fine mi buttai e consegnai il mio foglietto all’ispettore, incrociando le dita nonostante tutti i dubbi dell’ultimo minuto su un altro personaggio.
Gli attori si ritirarono dietro una delle porte di scena, per lo spoglio delle risposte, in quello che era stato “lo studio dello psichiatra” per tutto lo spettacolo, mentre il pubblico si svagava un po’ e scioglieva la tensione andando a fumare o chiacchierando coi vicini di posto. Al loro rientro, gli attori erano tutti in calzamaglia nera e non più coi costumi di scena: qualcuno – non ricordo più chi, forse proprio la mia amica L. – fece da portavoce e iniziò a spiegare al pubblico che quella sera davvero in molti avevano indovinato il colpevole della storia, rispetto alle altre due repliche. “È anche vero – aggiunse (sì, era proprio L. a parlare, ora ricordo!) – che nelle altre occasioni nessuno si era accorto di un certo dettaglio. – e poi, cambiando tono e rivolgendosi bruscamente verso di me – Chiara, mortacci tua, sei stata l’unica in 3 serate ad accorgersi di quel particolare!!! Ma come hai fatto?!?”
Alquanto imbarazzata, mentre tutti mi guardavano, farfugliai qualcosa sulla strana mancanza di particolari dopo quella frase…ma per fortuna L. riprese a parlare: “Ad ogni modo, come avevamo già detto all’inizio dello spettacolo, non era sufficiente indovinare il colpevole ma bisognava soprattutto capire quale fosse il movente…e questa sera assegniamo due premi, per due diversi motivi. Il secondo premio va al movente più inverosimile, più assurdo, più strampalato che abbiamo letto stasera!” E lì chiamarono a ricevere il suo premio una ragazza che aveva immaginato in due dei personaggi i figli “segreti” dello psichiatra, gemelli, che si erano improvvisamente ritrovati e riconosciuti nella sala d’aspetto e che avevano poi congiurato per eliminare il padre. “Per te c’è una bella lente di ingrandimento, così magari la prossima volta coglierai meglio gli indizi!”
Risata generale, poi L. riprese il discorso: “Resta da vedere ancora quindi chi si è avvicinato di più al movente corretto…dopo una lunga discussione tra di noi – ma davvero lunga! – per decidere quale fosse effettivamente la risposta più corretta…possiamo dirvi che il detective che questa sera ha risolto il caso…sei tu, Chiara!” Sgranai gli occhi incredula, nel dubbio che fosse tutto uno scherzo per via della mia domanda precedente: ma veramente avevo indovinato?!? Anni e anni passati a leggere e guardare qualunque giallo erano serviti a qualcosa, dopo tutto! Gli attori mi chiamarono con loro, mentre la sala applaudiva e io mi alzavo confusa e un po’ imbarazzata dal divano, un po’ spinta da G. che annuiva con la testa e ammetteva sorridendo la sconfitta: e sì, l’assassina era in effetti l’assistente dello psichiatra e il motivo per cui l’aveva ucciso era stato proprio il suo rifiuto di convalidarne il periodo di tirocinio perché aveva riconosciuto in lei una pericolosa vena di follia. E fu così che, prima della foto di rito con alcuni degli attori della compagnia, anch’io ricevetti il mio premio: “E tu, cara Chiara, hai vinto proprio l’arma del delitto: il tagliacarte usato per uccidere il dottore! Fanne buon uso!”
Tra le situazioni più divertenti e insolite che mi si sono presentate per godere di una performance teatrale, non posso proprio dimenticare quella di Teatrate, scoperto per caso a Roma attraverso il passaparola di alcuni amici di G., mio fidanzato all’epoca. Fino a quel momento non avevo avuto il minimo sentore dell’esistenza dell’improvvisazione teatrale in rima, un mondo fatto di gruppi di “attori-poeti” che si allenano settimanalmente al fine di disputare dei veri e propri match – organizzati solitamente in forma di tornei intercittadini – in cui il pubblico ha, come un tempo i passanti nel teatro di strada, la possibilità di decretare il successo o l’insuccesso della loro improvvisazione applaudendo, fischiando, gridando, tirando perfino degli oggetti (innocui) sul palco!
Esistono naturalmente regole ben codificate che scandiscono lo svolgimento del match, sotto lo sguardo attento e indagatore dell’arbitro che è preposto ad assegnare penalità alle due squadre in lizza ma anche a fissare tematica e numero dei partecipanti alle singole sfide. In realtà, a complicare ulteriormente la vita ai poveri attori, ad ogni serata vengono anche scelte 3 tematiche tra quelle inventate su due piedi dal pubblico presente in sala (che a volte dimostra di avere un certo grado di sadismo, aggiungendo la proposta di argomenti assurdi e complicati alla già enorme difficoltà iniziale imposta agli attori, che si trovano a improvvisare avendo a disposizione solo un minuto di tempo per confabulare tra loro ed imbastire un’idea eventualmente assegnandosi dei ruoli). Eppure, per quanto incredibile, il miracolo avviene ogni volta: le due squadre tirano fuori il meglio dalle condizioni assegnate da arbitro e pubblico e spesso regalano risate fino alle lacrime, specie quando in scena ci sono i beniamini del pubblico (com’è ovvio, sentire gli attori rimare in dialetto romanesco coinvolge maggiormente la platea della capitale). Ma c’è sempre una sorta di obiettività collettiva nell’assegnare la vittoria all’una o all’altra squadra, quando alla fine dell’improvvisazione l’istrionico arbitro, un personaggio piuttosto curioso anche lui, invita il pubblico a tirare su la “paletta”, ossia un cartoncino a forma di rombo con i lati dei due diversi colori attribuiti alle squadre: a seconda del colore di quello che viene rivolto dagli spettatori verso il palco, viene decretata a maggioranza la squadra che si è aggiudicata la singola sfida. Ma il momento in cui il pubblico ha maggiormente modo di farsi sentire, nel vero senso del termine, è quando può esprimere il proprio gradimento in tutta la sua esuberanza, anche – come dicevo prima – scagliando degli oggetti sul palco: all’inizio dello spettacolo, infatti, oltre al cartoncino bicolore, vengono distribuite anche delle morbide ciabatte! Quelle che vedete qui nella teca sono due pantofole da me personalmente raccolte a fine serata mentre lasciavo il teatro dei Satiri con i miei amici dopo uno spettacolo: c’è voluto anche un po’ d’impegno da parte della sottoscritta, e di G. che mi aveva dato man forte, perché non è stato facile ricostruire una coppia cercandone due esattamente uguali tra tutti i tipi e i colori sparpagliati un po’ ovunque nella platea. Ma era divertente perdere tempo per ritrovare due ciabatte sorelle, cercare di restare ancora per un po’ in quell’atmosfera giocosa che si era naturalmente creata durante la serata. Ed era così divertente tirarle che gli spettatori spesso le avevano lanciate senza alcuna reale motivazione, ma solo per una spontanea esuberanza data dal momento magico, diverso, straordinario vissuto assieme agli altri: in un’epoca ormai così malridotta da organizzare degli alienanti headphone concerts (o eventi di silent disco), quest’esperienza di segno totalmente opposto, così inaspettatamente collettiva e interattiva, aveva accentuato quella sensazione euforizzante che nasce dall’intelligenza dell’improvvisazione in rima, dalla stretta relazione del pubblico con gli attori, dall’eterno e coinvolgente rito del teatro.
Da brava laureata in letteratura inglese, non posso non riservare un posto speciale in questo mio ideale viaggio nel tempo e nel teatro al caro, vecchio zio Shakespeare! Roma presenta un’offerta teatrale tanto straordinariamente ricca e variegata da avere addirittura un suo Globe Theatre…quale migliore occasione per un’anglista per vedere le opere shakespeariane che farlo in una vera wooden O? Forse da questo flyer, che ha decorato per diversi anni il frigo di mia nonna a S.G.R., non è possibile vedere bene la forma circolare della struttura, ma si può certamente leggere con chiarezza il nome di Gigi Proietti, direttore artistico del Globe, che fece un’inaspettata e applauditissima incursione sul palco proprio la sera in cui ci andai per la prima volta.
Fu alla fine di agosto del 2009: avevo deciso di incontrarmi di persona con una ragazza di Roma che scriveva un blog piuttosto divertente, in cui si mescolavano buffi episodi di vita vissuta, opinioni letterarie, post sull’archeologia e opinioni personali, e mi era sembrata una buona idea andare con lei e il mio ragazzo a vedere Shakespeare una sera d’estate. Per non ricordo più quale serie di circostanze sfortunate, io e G. arrivammo molto tardi all’appuntamento, a ridosso dell’orario di inizio dello spettacolo, dopo aver avvisato G.R. di entrare senza farsi problemi per noi: contavamo infatti di sederci tutti a terra nell’economico pit, ma a quell’ora c’era ormai posto solo nelle gallerie. Riuscimmo a salutare G.R. solo durante l’intervallo (quando riuscii a prendere il braccialetto verde che riporta il “to sleep, perchance to dream” del celeberrimo monologo dell’Amleto, che potete vedere nella teca qui sotto; fu un acquisto un po’
di ripiego, visti i prezzi decisamente esagerati per le shopper di tela che avevo puntato) e la incontrammo nuovamente a fine spettacolo, quando facemmo una passeggiata notturna per Villa Borghese discutendo della performance appena vista.
In seguito, sarei tornata ancora e ancora al Globe con G., almeno una volta ogni anno, sempre colpita e incantata dalla bravura impressionante degli attori, dal luogo insolito e già predisposto all’immaginazione, dalla bellezza del racconto che si svolgeva sotto la luna piena di una notte di (mezza) estate.
Una delle opportunità che più apprezzo di questa mia seconda stagione all’università è senza dubbio data dalle “uscite didattiche” che i docenti organizzano soprattutto durante il primo semestre per arricchire l’esperienza formativa per noi studenti. Negli anni ho potuto visitare i Musei Capitolini e la galleria di Palazzo Spada, il Parco della Musica e il MAXXI, Palazzo Venezia e il Vittoriano; ho perso per motivi lavorativi la possibilità di visitare gli stabilimenti di Cinecittà col prof. D’A. ma ho potuto invece vedere spettacoli teatrali a titolo semi-gratuito, come quando al primo anno partimmo tutti insieme su un pullman noleggiato dall’ateneo alla volta di Pescara per assistere all’Amleto di Fabrizio Gifuni, o performance insolite all’interno della programmazione del RED.
Nel 2018, però, è stato il corso di letteratura inglese che ha dato il la per una visita lampo a Napoli, in occasione dell’adattamento teatrale di 1984 di George Orwell, che era proprio uno dei testi affrontati in aula con la professoressa E.. A dare quindi un valore aggiunto a questa rappresentazione è stata proprio la modalità inedita, da “gita di classe”, che ha visto il terzo anno del DAMS partire quasi al completo diretta a Napoli e trascorrere un’interessantissima serata tanto nei palchetti del teatro Bellini assistendo allo spettacolo, quanto seduti ai tavolini di un bar in una delle vie più frequentate del Vomero, alternando la degustazione di qualche dolce napoletano al confronto con le professoresse E. e R. sulle scelte drammaturgiche (come si può vedere dalla foto da me scattata che ho inserito in questa teca, lo spettacolo è iniziato a scena aperta, con un’insolita “intervista in diretta” agli attori su social media, privacy, globalizzazione, distopia, bruscamente interrotta però dalle invettive di una signora annoiata, probabile “compare” tra il pubblico, che era seduta in un palco proprio vicino al nostro!).
Anche il mattino seguente è passato piacevolmente nel mite clima partenopeo, nel mio caso visitando il parco della Floridiana e assistendo ad un imprevisto incontro di scherma medievale, prima di ritrovarci tutti insieme alla stazione per tornare a Teramo. Ovviamente non sono mancati momenti comici degni della commedia dell’arte grazie a uno dei personaggi più caratteristici del DAMS, L. P., che – come da prassi ormai consolidata – ha rischiato di perdere l’autobus del rientro pur trovandosi alla stazione come previsto: mentre L. stava pagando un panino alla cassa, infatti, il cartoccio che lo avvolgeva si è improvvisamente aperto lasciando precipitare a terra tutto il contenuto. L’espressione sul suo volto mentre mi guardava costernato per quel drammatico incidente è stata indescrivibile: c’erano sorpresa e spazientimento, ma soprattutto un’incredulità quasi ironica per tanta “sfiga”! Ovviamente, con il suo appetito degno di Pulcinella, è tornato subito indietro a prendere un altro panino, incurante del fatto che fosse ormai giunta l’ora della partenza…ma questa è un’altra storia che magari vi racconterò di persona, se ci incontreremo girando nelle sale del museo.
Nel curriculo di studi del Dams spicca un insegnamento, previsto al secondo anno, che ho atteso con molta curiosità: culture teatrali e performative riassume sì le diverse tradizioni nell’ambito della performance ma soprattutto condensa l’esperienza ambigua del teatro, la sua storia misteriosa e le categorie antropologiche che ne sono alla base, nella figura minuta ed enigmatica del professor D.. Non paga di affrontare questi argomenti per me così interessanti nel solo corso istituzionale, ho scelto di seguire con lui al terzo anno anche culture performative dell’età elettrica (finendo con il conoscere – tra le altre cose – proprio questi suoi articoli che i visitatori possono visionare nella teca n. 16, contrassegnati dalle mie sottolineature e cerchiature), per poter approfondire le tante domande (di norma, lasciate sospese, senza una risposta definitiva) e ipotesi di studio che il professore ha proposto durante le sue lezioni: con metodi non proprio convenzionali, nel suo stile a tratti spiazzante e a volte un filino beffardo, ha portato il nostro minuscolo gruppetto di quattro studenti a casa di Nietzsche o di Grotowski o di Artaud o del Living Theatre, e soprattutto ha preparato il terreno al superamento di alcuni miei pregiudizi nei confronti di opere e movimenti teatrali alquanto eterodossi, di cui ho potuto apprezzare lo spirito, le intenzioni, le intuizioni, le innovazioni se non proprio le scelte stilistiche. Anche lui in fondo, come quell’attore visto tanti anni prima al liceo, ha operato da catalizzatore, spingendomi a rivedere e scardinare felicemente alcune delle mie idee sul teatro.
A farmi realizzare l’avvenuto cambio di visuale nei confronti del teatro è stata la performance della piccola Compagnia
Teatropersona che ha portato in scena al “Pergolesi” di Jesi questa pluripremiata riscrittura “sarda” del Macbeth shakespeariano, di cui Alessandro Serra è l’autore, ispirato a tale operazione da un reportage fotografico effettuato sui carnevali della Barbagia. Un lavoro in cui “il monumentale dispositivo di lingua-immagine-coreografia, la cui complessità potrebbe risultare problematica, funziona in grazia di prove attoriali ineccepibili, raffinate in due anni di repliche”, secondo un’azzeccata definizione di Andrea Zangari che mi ha trovata completamente d’accordo. Per quanto non mi sia stato affatto semplice seguire (e soprattutto godermi) la restituzione in lingua sarda del capolavoro shakespeariano, per la prima volta in vita mia sono stata completamente avvinta e appagata dalla pura ed esaltante potenza scenica di uno spettacolo, frutto della complessa interazione tra i movimenti maniacalmente curati, benché apparentemente molto caotici e naturali, degli attori, un soundscape particolarmente stratificato e raffinato, una “fotografia” dai forti contrasti e un uso sapiente e “grafico” di una scenografia minimale e estremamente primitiva, basata sulla polvere, il metallo, la pietra, il sughero e il pane carasau.
Ho scattato questa foto a fine spettacolo, quando – complice l’incontro fortuito con un’amica del mio compagno che lavora per la Fondazione Pergolesi e ci ha fatti entrare, nonostante le maschere stessero cercando di chiudere la sala – ho potuto fare un salto in platea per godermi la bellezza dell’edificio che avevo visto solo dall’alto: l’ho scelta perché mi pare che racchiuda nelle diverse consistenze degli oggetti e nella loro disposizione i caratteri di essenzialità e ritmicità che ho incontrato anche nella performance. In primo piano, i pezzi di corteccia usati dagli attori come maschere per suggerire a livello simbolico l’avanzare della foresta di Birnam; dietro, il “piccolo ‘nuraghe’ costruito pietra su pietra, delitto su delitto” dal portiere ubriaco, secondo la pregnante descrizione che ne dà Andrea Porcheddu nella sua recensione; sullo sfondo, i quattro praticabili metallici che accompagnano l’intero spettacolo e ne costituiscono tutta la scenografia, “tripartita, traslata o ribaltata”[1] a modulare e trasformare lo spazio, come nella migliore tradizione elisabettiana: “è letto-catafalco per Macbettu, tavolo da banchetto allineato sul proscenio e funestato dai passi del fantasma di Banquo, “albero” a cui Lady Macbettu si impicca, imprevedibile sede del secondo incontro tra il protagonista e le streghe.”[2]
Per la prima volta durante uno spettacolo, dunque, nulla mi è arrivato attraverso il linguaggio verbale e tutto – invece – attraverso gli “altri linguaggi della scena”. Tutto quanto era non-verbale ha reso indimenticabile questo lavoro, superando la barriera imposta al pubblico da una lingua incomprensibile. Mi sono rammaricata più e più volte di non aver potuto scattare foto durante lo spettacolo (ci era stato espressamente vietato qualunque tipo di ripresa o foto), perché il loggione consentiva un’ottima visione d’insieme e facilitava l’emergere del disegno coreografico e registico: mentre la foto che ritrae il palco dopo lo spettacolo è proprio quella scattata da me quella sera, quella che vedete nella teca qui sotto è invece opera di fotografi autorizzati ma, in un certo senso, questa “cartolina” si avvicina quanto più possibile a quell’immagine che ho ancora chiarissima davanti agli occhi: il momento in cui dal buio, avvolte da una luce cruda, sono emerse le streghe.
Dei brevi stralci dal mio elaborato finale per il corso di culture teatrali, che ha assunto una forma ibrida a metà tra una recensione e una pagina di diario, possono forse aiutare a comprendere meglio il modo articolato in cui lo spettacolo mi ha parlato al di là delle parole, mostrando esempi concreti del raggiungimento di quell’incastro perfetto tra attore e suono e scenografia e luci nelle scene con le tre streghe:
“Ed ecco la prima sorpresa: “la […] comparsa [delle tre streghe] è annunciata dal brontolio di un suono” (i colpi sui praticabili di ferro da cui queste irrompono sul palco) “che cresce d’intensità fino a diventare un rombo minaccioso per poi interrompersi bruscamente.”[3] Il loro ingresso in scena è stato subito fuori dai canoni: niente di sulfureo o misterioso come mi aspettavo dalla lettura del programma, da una certa tradizione teatrale “ortodossa” e anche dal fragore iniziale, ma un frenetico e comico rincorrersi di tre figure incappucciate, che si afferravano e si divincolavano come marionette impazzite, danzando coi loro tetri costumi un grottesco girotondo. Pur spiazzata dalla comicità alla Looney Tunes dell’esordio, ho continuato a guardare affascinata i movimenti degli attori fino a rendermi conto, complice anche la visione generale dall’alto garantita dalla mia postazione, che quei movimenti apparentemente scomposti erano in realtà accuratamente coreografati e disegnavano stravaganti geometrie sulla polvere del palco.”
“[…] proprio tra le scelte drammaturgiche più efficaci, a mio parere, va annoverata la scena in cui Macbettu si reca dalle tre streghe in cerca di conferme alla stabilità del suo trono: il regista ha sfruttato in modo ingegnoso le possibilità simboliche offerte dalla scarnissima scenografia, per presentare l’universo ctonio a cui appartengono le megere mostrandole capovolte al pubblico, come soprannaturali pipistrelli, e facendole emergere dal buio totale con un’illuminazione radente ad hoc. Anche Macbettu si unisce a questa tellurica conversazione, assumendo la medesima posizione a testa in giù, e mostra agli spettatori la propria nera silhouette di spalle, come se fosse ormai ridotto al solo lato oscuro della sua anima.”[4]
Il visitatore potrebbe chiedersi come mai la sottoscritta non abbia mai pensato di fare teatro, visto l’interesse nel frequentarlo e studiarlo. Ebbene, questo autoscatto prova che un timido tentativo anche in questa direzione è stato fatto, per quanto imbarazzante: l’ultima tappa di questo mio viaggio nel teatro non poteva che essere immortalata nei suoi “brillanti” risultati.
Tra le iniziative della mia università, infatti, c’è il CUT, o Centro Universitario Teatrale, una piccola realtà nata nel 2019 che offre agli studenti, del Dams ma non solo, la possibilità di cimentarsi con la recitazione, la dizione e la drammaturgia, all’interno di una serie di laboratori organizzati con diversi docenti. Proprio nel maggio del 2019 ho scoperto che questi incontri, iniziati ad aprile, erano giunti quasi al termine e ho deciso di seguirne almeno un paio. Dopo aver seguito una prima lezione in cui avevo approcciato l’improvvisazione in collaborazione con alcuni compagni, nell’ultimo incontro in programma l’insegnante mi aveva chiesto di farne invece una in solitaria: quella volta il mio compito era esprimere la rabbia. Qualche secondo in disparte a cercare di farmi venire un’idea accettabile, un po’ di ansia da prestazione, un’occhiata all’unico oggetto di scena a mia disposizione, ossia una sedia in metallo, ed ecco la geniale trovata: sarei entrata in scena a passi veloci e decisi, con lo sguardo arrabbiato, e avrei sferrato un calcio ben assestato alla sedia. Contavo sull’effetto sorpresa nel pubblico anche perché, se non era esprimere la rabbia quello…non avrei saputo cos’altro inventarmi!
E quindi detto fatto, m’incammino a passo di marcia e appena giunta a tiro…sbam, tiro un sinistro da rigorista a una gamba della sedia! Ma mi accorgo già mentre la punta del piede colpisce il metallo che ho purtroppo calcolato decisamente male il peso della sedia, che si rivela molto più “piena” e pesante del dovuto…mi sfugge un involontario grido di dolore, mentre cerco – non so bene per quale motivo – di non uscire dal personaggio e continuo a recitare la parte dell’infuriata pur tentando di non poggiare il piede offeso a terra. Percepisco con la coda dell’occhio la faccia preoccupata dei compagni, il moto di soccorso da parte dell’insegnante che non sa se alzarsi o restare seduto, gli sguardi sbalorditi con cui tutti mi seguono mentre continuo a bistrattare la sedia (stavolta spostandola prudentemente con le mani) lanciando improperi a qualche sconosciuta entità. Mi siedo perfino su quell’oggetto infido, poi mi rialzo, ancora compresa nella parte, e infine mi allontano rapidamente verso l’estremità della stanza, che rappresenta le ideali quinte in cui rifugiarmi.
Risultati ad oggi di questa mia brillante alzata d’ingegno:
- alluce viola, gonfio e particolarmente dolorante fin da subito, che si è rivelato poi fratturato: 1
- ore ad aspettare un’amica che mi ha dato un passaggio in auto per tornare a casa evitandomi di camminare: 2 (circa)
- giorni passati a zoppicare davanti ai miei studenti che mi chiedevano in corridoio “Prof, ma che cosa le è successo?” e a dover rispondere alquanto imbarazzata di essermi ridotta in quel modo for art’s sake (con la sicura benedizione di Oscar Wilde): 3 – quelli rimasti prima della fine delle lezioni
- mesi trascorsi con dolori anche acuti che di tanto in tanto mi prendono all’alluce, perfino quando sono seduta senza fare nulla, e addirittura mi impediscono il movimento quando cerco di piegarlo: 12+
- rimpianti ad oggi: 0.
[1] La definizione è ancora presa da Andrea Zangari.
[2] Il virgolettato è mio, stralciato dall’elaborato
[3] La citazione all’interno del testo è di Susanna Sinigaglia.
[4] Il virgolettato è mio, ripreso dall’elaborato finale presentato per l’esame di Culture Teatrali e Performative.