di Martina Iacopino
Premessa
Tutti noi nasciamo collezionisti, ma se mai qualcuno ci dovesse chiedere qual è stato il primo oggetto che abbiamo collezionato, molto probabilmente non ce lo ricorderemmo. Difficile infatti affermare con certezza quale cosa sia stata collezionata per prima, per il semplice fatto che collezionare fa parte della natura umana. Fin da bambini abbiamo bisogno degli oggetti, che siano questi giocattoli, colori, libri, coperte o ciarpame vario, e questi semplici oggetti non sono altro che frammenti di vita cesellati in un ricordo affettivo molto variegato. Le collezioni che facciamo sono quindi involontarie, nel senso che accumuliamo ignari dei testimoni inanimati e silenziosi che rendono i ricordi fermi e indelebili nel tempo e nello spazio; questo pensiero l’ho approfondito solamente adesso, perché mi sono resa conto che gli oggetti, proprio come le fotografie, immortalano degli attimi e si servono di un metalinguaggio per farsi automaticamente raccontare. Ora, dopo questo percorso concluso, sono fermamente convinta che chiunque di noi conservi e collezioni degli oggetti in modo del tutto naturale, se aprissimo ad esempio quei cassetti dei comodini, delle scrivanie o altri mobili vari, chissà quanti oggetti vi troveremmo che noi nemmeno ricordiamo. A questo ultimo proposito vorrei parlare di un episodio piuttosto recente, del quale adesso mi servo per presentare questo mio “museo dell’innocenza”.
Il 15 settembre 2019, due giorni prima di partire per Teramo, io e mia madre eravamo occupate a preparare le nostre valigie, lei, dopo avermi accompagnata a Teramo, doveva andare a Ferrara per stare qualche giorno con mia sorella e mio padre, e io dovevo ricominciare le lezioni all’Università. Siccome quel giorno stavo cercando disperatamente un cavetto universale per caricare la mia cassa Bluetooth, – mi serviva perché il giorno dopo dovevo andare con i miei amici e il mio fidanzato a fare una scampagnata la mattina, e mi avevano raccomandato di portarla – ho aperto tutti i cassetti della mia stanza, ma non riuscivo a trovare nessun cavo che funzionasse, così sono andata nella stanza di mia madre; le ho chiesto se avesse un cavetto e lei mi ha detto di guardare nel comò. Vi dirò che in 17 anni che stavo in quella casa poche sono state le volte in cui ho aperto i cassetti di quel comò, soprattutto il primo, che era più ricurvo degli altri. Quel comò fatto con legno di ciliegio risale agli anni 80, le uniche volte che aprivo quei cassetti era per riporre delle robe piegate come lenzuoli, calzini, mutande ecc. ma il primo cassetto non lo toccavo mai perché sapevo che mia madre lo usava per metterci altro e ce l’ho scolpito in testa sin dall’infanzia come un custode di misteri. Quando lo aprì vi ritrovai un portagioie rettangolare nero con dei gigli di San Giovanni disegnati, una targa che vagamente ricordavo, un diario in pelle verde con serratura, tutti i portafogli che mia madre ha cambiato nel corso degli anni (inclusi alcuni che le avevamo regalato), dei soldi di Fiabilandia, e poche altre scartoffie che si possono notare in qualche frazione di secondo. Quando vidi tutte quelle cianfrusaglie chiesi a mia madre cosa fossero mai, lei mi rispose: «Qualche ricordo qua e là, non butto mai via niente». Cominciai a spulciare e a prenderli uno ad uno, mi stupì l’ordine con il quale alcuni oggetti erano stati disposti, e domandai. Mia madre, smise di mettere vestiti in valigia, si avvicinò e cominciò a parlarmi di ogni cosa che prendevo. Qui ho riportato alcuni di quegli oggetti sistemati in ordine cronologico.
Sardegna di Plastilina
«Questa Sardegna modellata con la plastilina ha quasi 50 anni, pensa tu che risale a quando andavo alle scuole elementari, è fatta sopra un pezzo di cartone. L’ho sempre conservata perché è un bel ricordo.»
«Ma è bellissima! – mi colpì davvero molto l’accuratezza nei dettagli fisici del territorio – Come mai non l’avevo mai vista prima scusa?»
«Perché la tenevo nascosta, fu una delle poche cose che mi divertì di allora.»
«Ah sì?»
«Si, devi considerare che ai nostri tempi le maestre non erano come quelle di oggi, oggi sono oro! Quelle di allora erano molto rigorose e davvero, ma davvero, cattive. Insieme a loro si aggiungevano poi le raccomandazioni dei nostri genitori, mia mamma (Nonna Lucia) ci teneva tantissimo all’istruzione, pur avendo fatto solo la prima elementare, e diceva “Se c’è qualcosa in cui sbaglia la bambina non vi fate problemi a rimproverarla o mettetela in castigo!”, e di conseguenza quando non facevamo i compiti o quando ci comportavamo in modo sbagliato questa mia maestra si sentiva in pieno diritto di metterci in castigo. La maggior parte dei castighi consisteva nel girare la faccia al muro dietro la lavagna oppure nel metterci con le mani davanti a lei facendocele picchiare con la bacchetta. Per spaventarci ci minacciava, “State attenti che se vi comportate male sta volta vi metto in gattabuia” e noi di questa famigerata gattabuia avevamo paura perché ci diceva che là dentro c’erano topi e che era una stanza completamente al buio. Queste cose le diceva anche se in realtà non avevamo fatto nulla di male. Io avevo paura solo a guardarla: aveva uno sguardo assassino.
Una scena che ricordo però a questo proposito è di un giorno in cui non avevo fatto i compiti per casa, mi spiego meglio: non avevo capito bene la spiegazione di matematica, io sono sempre stata una frana in matematica perché mi confondevo con i segni e i numeri e quindi non sapevo applicare il teorema. Però c’è da dire che non ero solo io, anche altri bambini avevano le mie stesse lacune e trattava male tutta la classe, devi pensare che questa era mezza esaurita pure. Comunque, siccome non avevo fatto i compiti portò me e altre 4 bambine che erano nella mia stessa situazione, fuori dalla classe e ci fece entrare in una stanza effettivamente buia, che poi abbiamo scoperto essere la stanza del Bidello, Grenotto, dove teneva i gessi per la lavagna, le scope, i secchi… insomma: era il suo ripostiglio e la maestra ha ficcato a noi cinque bambine là dentro. Per la paura cercavamo contatto fisico l’una con l’altra e cercavamo di stare compatte perché la stanza era completamente buia. Ad un certo punto una bambina, Franca, che sente qualcosa al piede, si mette ad urlare “Un topo, un topo!” e allora ci siamo spaventate; toccando i piedi l’una con l’altra pensavamo ci fosse un topo, ma in realtà, e aggiungo per fortuna, non c’era. Ci siamo messe a gridare aiuto, a vociare spaventate, a salire sulle sedie e sugli scaffali, ma nessuno ci sentiva perché oltre ad essere stata chiusa a chiave era una stanza dove non entrava nessuno se non il bidello che era già passato di lì. Alla fine, piano piano, ci siamo calmate da sole. Suonata la campanella ci siamo dette “vabbè adesso che è suonata la campanella, verranno ad aprirci”, e invece no!»
«Che? Come no??»
«Eh… no, perché la maestra si dimentica di noi, non è venuto nessuno ad aprirci dopo il suono della campanella, siamo rimaste là dentro.»
«Mamma mia!»
«Ovviamente Nonna Lucia non vedendomi arrivare si era allarmata; io andavo alle scuole elementari in cui sei andata tu, la stessa struttura, quindi erano proprio sotto casa, e siccome in quegli anni non c’erano case davanti la scuola, lei andava fuori nel ballatoio all’ora di uscita e guardava la porta della scuola elementare per vedere se c’ero. Quando non mi ha vista uscire, né a me né ad altre due bambine che abitavano nella nostra stessa zona, erano rinchiuse insieme a me infatti, si è detta “Ma dove sono andate a finire ste discole?” ed è andata dalla mamma di Santina, anche lei affacciata alla finestra, che ha aggiunto “Quando tornano le ammazziamo di botte!”, poi a queste si unisce anche la mamma di Orsola, l’altra bambina, che stava a 100 metri da casa nostra e più vicina alla scuola. Ci chiamavano discole perché secondo loro eravamo monelle e ribelli. Passano dieci minuti, un quarto d’ora, venti minuti, mezzora… ma ste bambine non compaiono. Le tre mamme, di conseguenza, si sono messe a girare e dall’agitazione erano pronte ad andare dai carabinieri.
A quei tempi non c’erano le macchine, si faceva tutto a piedi, tanto che anche il bidello aveva un motorino, un Ciao mi ricordo. Prima di andare dai carabinieri però andarono dalla maestra che non abitava nemmeno tanto lontano da qua, per sapere se eravamo andate a scuola e per accertarsi che fossimo andate da qualche altra parte. Quando la maestra ha visto le mamme là si è ricordata di noi, e ha fatto: “Oddio sono rimaste chiuse dentro la stanza!” e allora le mamme, molto confuse: “Come sono rimaste chiuse dentro la stanza?”, “Si perché non hanno fatto i compiti” … qua e là… insomma, cercava in qualche modo di giustificarsi così minimizzando la colpa. “E ora come facciamo? Bisogna andare ad aprire la scuola” disse, ma la scuola era chiusa e le chiavi le aveva il bidello che abitava lontano. Si sono quindi recate immediatamente a casa del bidello per chiedere la chiave, e lui, che aveva già mangiato e si era messo a letto a dormire, quando è andato ad aprire la porta e ha visto e sentito tutte ste signore si è incazzato, si è incazzato molto di più lui delle mamme “Ma come?!!!”, prende subito la chiavi, si getta sul motorino e corre ad aprire la scuola. Dopo aver aperto la scuola, sentiva a mano a mano che si avvicinava che stavamo piangendo, e finalmente ci apre e ci fa uscire da là dentro. Fortunatamente non siamo rimaste molto traumatizzate perché poi abbiamo scoperto che non c’era niente in quella stanza. Immagina tu, cosa succederebbe se questo fatto accadesse oggi… il finimondo!»
«Ma è inconcepibile a prescindere una cosa del genere, scusa come reagì nonna dopo?»
«Nonna? Nonna figurati, non è andata contro la maestra, come nemmeno le altre mamme del resto, davano ragione a lei perché pensavano che se ci aveva messo in gattabuia era perché ce lo meritavamo. Reazione non ci fu stata alcuna reazione perché dopo si erano tranquillizzate e avevan fatto “Vabbè menomale che erano lì e non stavano in giro”. Non passava neanche per l’anticamera del cervello il dare torto alle maestre.»
«Capito… siamo oggi arrivati da un eccesso all’altro… comunque mamma, dove sta la Sardegna in questa vicenda?» mentre glielo chiedevo la tenevo tra le mani e continuavo a toccarla.
«La Sardegna sta nei giorni a seguire da questo fatto, la maestra in questione, che soffriva davvero di esaurimento, è stata male per po’, ha avuto un periodo di depressione perché chiunque la vedeva si ricordava dell’episodio e provava vergogna, veniva a scuola lo stesso certo, però quel giorno fu assente; solitamente quando mancava una maestra facevano andare gli alunni in un’altra classe per stare con un altro insegnante, a noi ci fecero andare dal professore Cuppari, il professore che ha avuto zio Mimmo, che era veramente bravo, era anzi il professore più bravo della scuola, anche se un po’ vecchiotto. Questo qua nella sua classe cercava di mantenerci in silenzio per fare lezione ai suoi alunni. Vedendoci distratti, ad un certo punto disse: “Facciamo una cosa oggi, qui abbiamo della plastilina e dei cartoncini. Ognuno di voi prenda un cartoncino e della plastilina per fare una regione dell’Italia.” Ci stavamo mettendo a fare questo compito, ma visto che eravamo in tanti litigavamo, quasi tutti volevamo fare la Calabria, e quindi il professore per rimediare ha fatto il sorteggio e ha assegnato a ognuno una regione diversa, aggiungendo “Fatela bene che poi faremo una piccola mostra e vedremo chi è stato il più bravo.” C siamo messi perciò a fare ognuno una regione con la plastilina, modellarla sul cartoncino rispettando gli elementi fisici come monti, colline, pianure ecc. è stata una bella giornata perché il professore faceva lezione con i suoi alunni e noi eravamo assorti nel nostro lavoro creativo. Fummo tutti molto entusiasti di quella cosa perché la nostra maestra non ci faceva fare mai niente di tutto questo. Per noi lavorare la plastilina era un’attività bella e manuale, era una novità, un gioco.»
«Le avete finite tutte lo stesso giorno?»
«No, non le abbiamo finite lo stesso giorno, abbiamo continuato pure il giorno dopo, due giorni dopo… tant’è che il professore è andato dalla maestra e le ha detto esplicitamente: “Ho dato loro questo compito l’altro giorno e lo devono finire”, ma la maestra, che voleva fare lezione, e farci fare le cose come diceva lei, si è arrabbiata con il professore perché diceva che questa attività non sarebbe servita a niente, diceva che invece ci poteva dare da fare le tabelline, le pagine da studiare, farci imparare la poesia a memoria, ste cose qua.»
«E che avete fatto poi?»
«Che abbiamo fatto? Siccome c’era il professore che ci ha spalleggiato per un paio di giorni, abbiamo perso più tempo per cercare almeno di non soccombere alle angherie della maestra. Eravamo contenti e felici di fare quel gioco, non ci interessava alla fine come veniva, era più che altro la bellezza della novità. Quando finimmo la nostra regione, il professore Cuppari prese tutti i lavori e li mise in esposizione. Non appena vide la mia Sardegna ha detto “Tu sei brava, hai fatto le cose perfette, però per premiare non premiamo a nessuno perché qua siete tutti sullo stesso livello, però hai una bella manualità!” a me ha fatto tanto piacere ricevere questi complimenti. Quando a fine anno la nonna è andata a scuola, il professore Cuppari si ricordò di me e le disse: “Signora mi raccomando, sua figlia è brava in disegno, mandatela al liceo artistico o all’istituto d’arte quando sarà grande perché è molto brava!”»
«Però… e quanti anni avevi?»
«Mi pare fosse la terza elementare quindi 8/9 anni»
«Una curiosità: ci sei mai stata in Sardegna?»
«No, non l’ho vista mai, è una delle poche regioni che non ho visitato, però mi piacerebbe andarci.»
Soldi dello zio d’America
Posai la Sardegna di plastilina e presi le banconote, quelle di Fiabilandia, un parco divertimenti a Rimini dove mamma portava me e Lucia quando eravamo piccole, lei prese invece dei dollari americani e me li fece vedere.
«E questi dollari da dove arrivano?» le chiesi
«Dallo zio dell’America, il padre di Leo, nostro cugino che ora sta in Canada.»
«Quando è successo?»
«È successo quando facevo le scuole medie, era il 1975, lo zio se ne era andato nel 1950. Lui era lo zio sia di mio padre e sia di mia madre, perché se ti ricordi nonna Lucia e nonno Leo erano cugini di primo grado e possedevano da una parte gli stessi parenti; ricordo che ci parlavano spesso di questo zio, li aveva persino invitati ad andare con lui, ma mia madre non voleva partire perché molto legata alla sua terra e alla famiglia, di conseguenza decisero entrambi di rimanere qui. Dunque: dopo la guerra questo zio partì per l’America portandosi dietro moglie e figlio, promettendo a tutti di tornare presto, ma da quel presto passarono 25 anni. Da noi non c’erano i telefoni ancora, si comunicava con le lettere per via aereo e ogni tanto ci arrivavano dallo zio Leo che le spediva e vi ci metteva dentro dei soldi, non è che fossero tanti, perché come li spediva alla nostra famiglia li spediva anche a tutti gli altri parenti, che erano davvero numerosi! Lì aveva trovato un lavoro e una bella posizione e quindi, quando poteva, ci mandava sempre qualche dollaro, se vedevamo delle lettere con le strisce rosse sapevamo già che erano le notizie di questo generoso zio. Lui poverino ha cercato di accontentare un po’ tutti, passava le giornate a scrivere lettere, c’è da mettere in conto che non sapeva nemmeno scrivere per bene perché era analfabeta, non era andato a scuola, e cercava di ricordarsi assiduamente le stesse parole; la cosa bella è che riusciva a ricordarsi tutti i nomi, scriveva a modo suo, e forse qualcuna di queste lettere ci deve essere da qualche parte, però erano delle lettere troppo forti. Vedi la nonna come scrive?»
«Si…»
«Ecco, lo zio Leo scriveva peggio della nonna, quindi ti lascio immaginare come erano quelle lettere! Però l’importante era comunicare con lui e ti ripeto, non dimenticava mai i nostri nomi e di mandare quello che poteva. Queste lettere dall’America ci mettevano due mesi ad arrivare e alcune tante volte si perdevano e c’era magari a chi non arrivavano, però lui le spediva a tutti, non escludeva nessuno.
Certo, non è che ci abbia arricchiti però sai ogni tanto quando mandava questi soldini facevano comodo alla famiglia, ci hanno aiutato un po’ ad andare avanti, perché a casa lavorava solo nonno Leo e i soldi andavano così così visto che faceva il muratore, a quei tempi praticando quel mestiere portare avanti quattro figli era un compito arduo. La nonna di per sé non lavorava, nel senso che non aveva un lavoro fisso, però non si tirava mai indietro quando c’era l’occasione di lavorare, faceva molte cose: tesseva coperte, vestiti, lenzuoli se qualcuno glielo chiedeva e quando veniva l’estate raccoglieva i gelsomini portandosi dietro anche me. Le uniche feste che si facevano a casa nostra erano Natale, Capodanno, Pasqua, Pasquetta e Ferragosto. Il resto era tutto di lavoro perché anche le domeniche, quando c’era il periodo delle olive, nonno Leo ci portava a raccoglierle per fare l’olio ed era un grosso sacrificio per me perché ci portava indipendentemente dal fatto che facesse freddo o che piovesse. Lavoravo tantissimo, quando poi c’erano da fare i giardini andavamo dai giardini, avevamo gli animali e mettevamo da mangiare agli animali… mi impegnavano in tante cose, poi tua nonna si lamentava e mi picchiava se qualche compito per la scuola non lo facevo!
Tornando al discorso di prima, questi zii sono venuti praticamente a sorpresa e, quando sono arrivati, si sentiva urlare dalla strada “È arrivato lo zio dall’America, è arrivato lo zio dall’America!” ed eravamo tutti contenti perché nessuno di noi giovani parenti lo aveva mai conosciuto e corremmo così a presentarci. Ad un certo punto ci disse “Perché non venite a trovarci?”, noi volevamo, ma come si faceva ad andare che ci volevano un sacco di soldi? Persino lui ci aveva messo 25 anni per racimolare i risparmi, perché allora i biglietti aerei costavano assai, molto di più rispetto a quanto costano oggi, risparmiare per fare il viaggio non era cosa da niente. Avevano scelto di viaggiare con l’aereo perché quando erano partiti da qui con la nave ci misero 24 giorni ad arrivare, ed era stato abbastanza pesante.
Da noi si usava che quando arrivavano i parenti da fuori, ci si divideva il compito di farli andare a mangiare in casa di ognuno e si invitavano bene o male tutti i parenti a prendere parte, siamo stati partecipi di grandi tavolate. Quello è stato un periodo veramente bello per me, perché per la prima volta in vita mia ero riuscita ad andare da qualche altra parte; di solito se si facevano le feste in famiglia si organizzavano sempre a casa nostra perché nonno Leo era il più grande (gli zii da parte di nonno Leo erano sette) e di conseguenza venivano tutti a casa nostra. Noi dovevamo cucinare, preparare per tutti quanti, gli altri andavano magari a messa, si preparavano d’appuntino, andavano a divertirsi, si vestivano per bene e noi invece, io, zia Rosetta e nonna, facevamo le sguattere. Questa usanza delle feste sì, era bella da una parte perché ci riunivamo tutti in compagnia, però poi alla fine loro si alzavano se ne andavano, e tutti quei piatti, bicchieri, posate eccetera, che allora non c’era la plastica, a chi toccava lavarle? A me e zia Rosetta. Anzi, in realtà l’unica che ci aiutava un pochino era la zia Cata, la mamma di Carmelina, che veniva un po’ prima e ci aiutava a cucinare e a preparare i piatti, ma gli altri tutti che se ne approfittavano, venivano belli “a tavula cunsata” come si suol dire. L’unica eccezione c’è stata appunto con zio Leo, zia Teresa e cugino Leo. Abbiamo passato anche un ferragosto bellissimo mi ricordo, eravamo alla pineta di Bova, ci dovrebbero essere delle foto sotto da nonna, ci eravamo divertiti tantissimo!»
Diario
Mentre lei finiva di raccontarmi di uno dei suoi periodi più belli prendo in mano il diario, nemmeno questo avevo mai visto, mia madre doveva sicuramente aver rivoluzionato il suo cassetto perché se fosse stato lì da sempre in evidenza di certo non mi sarebbe parsa così inedita la sua scoperta. Lo sfogliai velocemente come si fa per istinto con un libro e le chiesi, notando la bella calligrafia, di che periodo fosse.
«È l’emblema della mia adolescenza, sancisce il mio passaggio da bambina a donna… era il primo anno del liceo artistico. Per me è stato faticoso adattarmi, avevo in mente di andare a fare la parrucchiera dopo la scuola media, ma i miei genitori non volevano, nonno Leo da una parte, essendo io una femmina, riteneva che dovessi o andare alla scuola superiore per poi diventare medico o avvocato o stare a casa a fare i servizi, nonna Lucia dall’altra mi disse “No, non va bene, gli altri prima di te hanno studiato” perché appunto i tuoi zii, tutti più grandi, erano andati alle superiori, zia Rosetta al liceo scientifico e stava continuando all’università a Messina, zio Totò al geometra a Bova Marina e zio Mimmo al liceo artistico a Reggio. Nonna si era ricordata del professore che le aveva detto di mandarmi al liceo artistico e ha cercato di indirizzarmi lì visto che già era andato zio Mimmo, lui è stato la mia strada libera, sennò di sicuro non sarei andata. Nonna Lucia ha dovuto combattere a lungo con nonno Leo perché lui non mi ci voleva mandare. C’era questa diceria che le femmine che viaggiavano per Reggio erano delle poco di buono, delle cattive ragazze che avevano preso una brutta strada perché si erano allontanate da casa, ovviamente solo dicerie. Mio padre cedette poi a mia madre e si convinse a mandarmi al liceo visto che andava già mio fratello, diciamo che fosse relativamente più tranquillo. È stata pertanto la nonna ad insistere che io andassi al liceo, sennò ti dico che non sarei andata all’artistico, non so se in alternativa avrei potuto fare un’altra scuola, questo non te lo so dire, l’artefice di tutto è stata la nonna, perché se fosse stato per nonno Leo, sia io che zia Rosetta avremmo dovuto già finire perché lui non era incline a far studiare le figlie femmine. Ma a dir la verità forse non era nemmeno tanto lui, bensì i suoi fratelli che erano invidiosi: sparlavano alle sue spalle chiedendosi come facesse a mantenere quattro figli a scuola e si facevano i fatti nostri. Secondo i fratelli e le sorelle di mio padre era insensato perché nessuno di loro aveva mandato i figli a fare le superiori, forse solo un paio di miei cugini, ma tutti gli altri, circa una quindicina escludendo noi, non ci è andata; e poi, oltretutto, una femmina che andava al liceo per loro era una cosa fuori dal normale.
Comunque, dopo tante peripezie, andai alla scuola a Reggio, il primo giorno me lo ricordo come fosse ieri. Pensa tu che mi pareva di essere in capo al mondo perché fino alla terza media per me tutto il mondo era concentrato a Bova Marina, non sapevo l’esistenza di altri paesi vicini, figuriamoci se sapevo che esistesse una vita diversa da quella che vivevo. Per me fu una situazione anomala, se da casa mi muovevo per andare da qualche parte era perché nonno Leo ci doveva portare in campagna a lavorare, ma già dalle prime fermate del treno, ho scoperto che la realtà era un pochino diversa. Mi sentivo più libera andando a scuola perché a casa non potevo fare niente se non sgobbare. Giocare ormai non si poteva più perché eravamo grandi, per giocare si intendeva lo sport, il quale secondo loro era un passatempo e non ci dovevano essere passatempi, bisognava pensare alle cose serie. Quando vidi la città appena scesa dalla stazione mi sentì un pesce fuor d’acqua, erano le prime volte viaggiavo sul treno, e già quella era stata una nuova esperienza.
Proprio perché era una cosa nuova e oltretutto ero in piena libertà fuori dalle mura di casa, mi sono comprata un diario con serratura e ho iniziato ad annotare tutto quello che mi capitava durante il giorno. Lo vidi in una vetrina tornando da scuola ed ebbi questo desiderio di acquistarlo. Ci scrivevo sopra storielle, poesie, segreti… ogni giorno raccontavo la giornata in maniera sintetica, segnavo dove andavo, annotavo qualche ragazzo che mi faceva la corte… raccontavo al diario quello che succedeva durante il giorno, non proprio tutti i giorni però, solo quando c’era un qualcosa di particolare, un segno particolare… e ogni tanto avevo pure attacchi di fantasia. I fatti segreti non li scrivevo in un linguaggio normale, avevo un mio codice, un mio alfabeto criptato, in modo da rendere la lettura comprensibile solo da me, adesso a distanzia di anni se andassi a leggerlo non so se ricorderei qualcosa. Ho fatto anche molti disegni perché mi piaceva disegnare, però piano piano andando al liceo artistico la voglia del disegno mi era passata. Disegnare era una delle poche cose che mi davano libertà di espressione e siccome lì dovevo farlo per forza seguendo certi canoni, mi sentivo obbligata come sempre, come se fossi a casa, e io tutto volevo tranne che smettere di sentirmi libera da casa. Ogni tanto qualcuno, come mia sorella, mia madre, i miei fratelli ecc. me lo prendeva per sapere cosa scrivessi cercando di captare le parole, ovviamente invano.»
«Mi ricordo quando tu e Lucia vi metteste a leggere il mio di diario, avrei dovuto pensare anche io ad un codice criptato visto che la violazione della privacy è un vizio di famiglia.» si mise a ridere.
«Ma non pensare che scrivessi chissà che cosa, scrivevo anche io cose da ragazzina, erano parole innocenti, di diverso dal solito magari scrivevo “oggi sono andata a ballare”, perché devi sapere che il sabato a scuola non si andava mai perché, come dicevamo, sempre “era fascista”, ci stavano le discoteche aperte e andavamo lì a ballare. Ci si divertiva in questo modo, facevamo tutti i balli di quelle musiche di fine anni 70 inizio anni 80. Le discoteche di allora non erano come quelle di oggi, affatto! Ci si divertiva ballando e non si bevevano tutti questi alcolici. Ho trascorso tutto il periodo del liceo ad annotare su questo diario le cose che mi capitavano, alla fine erano talmente tante che l’ho mollato perché non riuscivo più a scrivere tutto.»
Walkman
Sotto al diario, c’erano delle scartoffie come dépliant e buste, un porta tablet rosa vuoto, e uno scatolo avvolto da imballaggio, mia madre la prese ed iniziò a parlare.
«Questo mi ricorda tante cose: era la fine degli anni ‘70, inizio ‘80, erano gli anni del liceo e avevo un amico di nome Natale, questo ragazzo lo avevo conosciuto dopo il primo anno, me lo aveva presentato Enza, una mia compagna di Bagnara che poi hanno bocciato e che non venne più a scuola, mi rimase l’amicizia con lui. Io viaggiavo da Bova per Reggio e tutte le mattine era sempre alla stazione, accompagnava a scuola me e le mie amiche: Patrizia, Maria, Mimì e poi anche Franca che andava al professionale. Lui ogni mattina era lì ad aspettarci, voleva offrirci sempre il caffè, io all’epoca non prendevo il caffè al massimo prendevo un succo di frutta. Lì vicino la scuola c’era pure una rosticceria e non c’era giorno che questo ragazzo non ci portasse tramezzini, pizzette, panini, calzoni, arancini ecc. Era più grande di noi e lavorava, era un bravo ragazzo e si comportava da vero amico, ricordo che c’era stato un tema a scuola che chiedeva “Pensi possa esistere l’amicizia tra uomo e donna?” io avevo risposto: “Assolutamente sì”, perché appunto c’era Natale, un vero amico, qualsiasi cosa io avessi bisogno lui era sempre presente. Come noi andavamo a scuola, lui andava a lavorare, faceva il camionista allora e tutte le mattine veniva con il camion, lo parcheggiava alla stazione e ci offriva da bere e da mangiare e, come ti ho detto prima, ci accompagnava a scuola. Una volta con un tir ci ha portate!»
«Che? Come con un tir?»
«Si perché lui lavorava e faceva le consegne con i camion che gli davano. Era una persona veramente in gamba, tutte noi gli volevamo bene, se qualche volta non era presente ce ne accorgevamo subito, iniziavamo a chiederci “Ma Natale dov’è?”.» rise
«E grazie che ve ne accorgevate, pagava lui!»
«Ma si faceva avanti sempre, perché lui era l’unico che lavorava, era più grande e ovviamente e offriva a tutti. Tante volte quando veniva il sabato, sapeva che non andavamo a scuola, ci chiedeva dove andassimo e poi si univa sempre a noi. Magari andavamo a ballare e lui era già pronto per venire con noi, lasciava il lavoro e veniva, non sapevamo come facesse, ma era sempre presente. Arrivava ogni tanto con dei regali per tutte, sempre in nome dell’amicizia, specialmente a me non mancava mai di fare regali.
In quel periodo era appena uscito il walkman, cioè un dispositivo che ti faceva ascoltare le cassette che registrarvi e il tutto si sentiva solo con le cuffiette e mi era piaciuto. Lui, un giorno, arriva con questo walkman “Te lo regalo così ascolti un po’ di musica” mi disse, “Ma Natale no ma non c’è bisogno che mi fai tutti questi regali, ti disturbi sempre!” e lui: “Ma no non ti preoccupare, prendilo come un regalo per la nostra amicizia”. Contentissima, presi sto walkman e lo usai tutti i giorni mentre stavo sul treno, ascoltavo le cassette della musica che mi piaceva. Eravamo una felice comitiva, devo aggiungere però che al liceo erano fidanzate tutte tranne me.»
«Come mai?»
«Come mai? Dunque, c’era sempre qualcuno che mi corteggiava e io dicevo a Natale chi piaceva e chi no, sai essendo amici parlavamo spesso di queste cose, però il giorno dopo tutti questi ragazzi che mi facevano la corte sparivano. Mi venivano quasi sempre complessi, tant’è vero che in tutti gli anni del liceo io non ho mai avuto un fidanzato… ero confusa perché tutti che mi guardavano, che mi dicevano “che bella ragazza!” e poi nessuno che si facesse vedere. Una volta mi ero detta: “ma chi lo sa, forse puzzo…” poi mi odorai “no, cosa c’è allora?”. Non ridere, me lo chiedevo davvero perché quando conoscevo in ragazzo il giorno dopo spariva del tutto… e il bello è che se andavo a ricercarlo manco mi dava retta, al punto che mi vedevano e mi cambiavano strada, e io tante volte parlavo di queste frustrazioni con Natale. Allora i ragazzi ti venivano dietro per conoscerti, ti seguivano, e tante volte Natale mi ha cacciato pure da vari impicci perché se c’era qualcuno che non mi piaceva e mi dava fastidio, me li mandava via, mi diceva “non ti preoccupare che me la vedo io”.»
«Non ci vuole una laurea per capire che era colpa sua se eri single eh!»
«E sì, ma che ne potevo sapere, trattava sempre bene tutte e si comportava da amico. Pensa questo quattro anni mi è stato dietro, QUATTRO ANNI! E ho scoperto tutto all’ultimo anno di liceo, prima del diploma. Lui arrivò, verso aprile/maggio, con un anello, io gli dissi “No Natale, questo no! Il walkman, gli orsetti di peluche e tutto quello che mi hai regalato ok, anche se fino ad un certo punto, ma l’anello no! Gli anelli si regalano alle fidanzate non alle amiche! Mi dispiace ma non lo accetto” io lo vedo che questo inizia a sbiancare, si tocca la testa e mi fa: “Mannaggia, sai è da tanto che te lo volevo dire”, e io: “Che cosa Natale?”, “Tu ora te ne vai e non ci vedremo più, ma io volevo chiederti se volevi essere la mia fidanzata”, mi sono messa a ridere: “Natale ma siamo amici, ma stai scherzando?” e lui: “No no, è vero, son quattro anni che volevo chiedertelo, cercavo di dirtelo però poi non ne avevo il coraggio”. Da lì ho capito il perché scomparivano tutti quei ragazzi: lui li minacciava dicendo magari “Non ti avvicinare che quella è la mia ragazza!” e quelli che mi corteggiavano erano comunque quasi tutti liceali, lui era più grande e di conseguenza avevano paura, sicuramente per quelli che non erano studenti, era anche per rispetto che non si avvicinavano, allora ci si guardava bene dall’importunare persone già impegnate. giustamente mi vedevano sempre con lui e ci credevano. Gli dissi di no che per me era solo un amico, un grande amico.»
«Ma se lui te lo avesse detto prima gli avresti dato una possibilità?»
«Se me lo avesse detto prima gli avrei comunque detto di no perché non era il mio tipo. Tutte le mie amiche quando lo hanno saputo mi hanno detto “Ah ecco perché ci offriva sempre e ci faceva regali! Vabbè, a noi è andata bene! Abbiamo mangiato a sbafo per tutti questi anni”, giustamente dicevano che a me è andata male perché loro erano fidanzate e io no perché me li faceva scappare tutti!»
«Lo hai più rivisto?»
«Sì sì, dopo tanti anni l’ho incontrato in un supermercato, ero già sposata e avevo già avuto te, lui si era sposato pure e guarda caso aveva anche lui due figlie femmine come le ho io e dopo avermi salutata mi fa “Eeh ricordi? Non mi volisti”, “Natale non eri il mio tipo”, “Ma sì, ora è tempo passato, però sai mi hai fatto patire perché non sapevo come dirtelo!” e mi ha raccontato tante cose, mi ha chiesto scusa per tutte le volte che ha mandato via ragazzi che mi interessavano, “ma figurati, dopo tanti anni nessun problema” gli dissi. Io gli ho sempre voluto bene perché dicevano che l’amicizia tra uomo e donna non esiste, che c’è sempre un secondo fine, e noi dicevamo che non era vero, perché c’era Natale.»
Anello della nonna
Tutti questi oggetti che mi aveva mostrato erano ai miei occhi e alla mia memoria sconosciuti, l’unica cosa che mi era familiare era questo bellissimo portagioie rettangolare con dei gigli di San Giovanni (i gigli rossi), dipinti a mano; mi ricordo che quando ero più piccola mi divertivo ad aprirlo e a giocare a mettermi gli anelli alle dita all’insaputa di mia madre. Gli anelli che c’erano me li ricordavo tutti, specialmente uno che era più piccolo degli altri e che, quando ero bambina, mi entrava alla perfezione nell’anulare. Era il più semplice di tutti, al contrario degli altri non aveva pietruzze incastonate, l’unica decorazione erano dei rombi che col senno di poi ho scoperto essere due spighe di grano visto che si trattava di una semplice fascia che si scambiano i fidanzati.
«Ma tu la sai la storia di questo anellino?» mi disse
«Non mi pare.»
«Bene: Era un lontano 1982, anno del mio diploma, e nonna Carmela mi voleva fare un regalo per la promozione. Era sempre pronta a fare regali ogni volta che vi fosse una ricorrenza festiva come il Natale, il Compleanno e soprattutto l’Onomastico, e per quello che poteva cercava di far felici tutti e sette i nipoti: ad esempio la bicicletta la comprava mano a mano a tutti quanti, non faceva alcuna preferenza a differenza dei miei nonni paterni. Trattava bene tutti, con me in realtà aveva un legame leggermente più forte perché portavo il suo nome, c’era anche l’altra nipote che lo portava, però essendo che gli ultimi anni della sua vita li trascorse con noi, si legò un po’ di più ai nipoti che vedeva quotidianamente, ma ripeto, quando si parlava di dare, trattava tutti alla stessa maniera. Lei e nonno Antonio stavano con noi perché purtroppo era paralizzata e non potevano stare da soli, la maggior parte del tempo lo passava stando a letto coricata; io andavo da lei, nella sua stanza e la aiutavo sempre quando ero in casa: la facevo alzare dal letto, la mettevo seduta, la tenevo col braccio, le portavo da mangiare, le facevo le punture… come tutte le nipoti fortunate volevo tanto bene a mia nonna e questa cosa era ovviamente ricambiata, io ero affezionata a lei e lei lo era a me.
Sapeva che mi dovevo diplomare quell’anno e la sua premura era quella di farmi un regalo, voleva regalarmi qualcosa in oro e mi chiedeva cosa preferissi tra una collana, un bracciale, degli orecchini o un anello, io le rispondevo che non volevo assolutamente nulla, non c’era bisogno che mi facesse il regalo… e lo pensavo davvero perché a me bastava solo il suo pensiero, visto che i tempi che vivevamo non erano certo i più proficui. Nonna Carmela però non ci badava alle mie parole perché il regalo lo voleva fare lo stesso, ma era sulla sedia a rotelle e non si poteva muoversi, incaricava mio nonno e lo comandava a dovere. Lei lo chiamava “Curizuni”, che significa uomo dalla testa dura, lo chiamava così perché non ascoltava mai quello che diceva lei e si arrabbiava spesso e volentieri.
Un giorno, tornata dagli esami di maturità, andai a salutarla e la vidi che stava tutta arrabbiata nel letto, ce l’ho ancora impressa dentro la mente quell’immagine. Mi preoccupai molto nel vederla così, le dissi “Nonna ma che avete?”, perché allora si dava del voi non è che si dava del tu come adesso, “Dassami stari che sono incazzata cu stu curizuni di to nonnu” io le faccio “E perché nonna?”, “Perchì avi nu misi chi nci dissi a to nonnu mi ti catta n’anellu”. Lei aveva detto a mio nonno di andare a prendermi il regalo e di portarmi con sé, ma non era propenso a spendere soldi e non ci voleva manco pensare ad un regalo. Però alla fine, per quanto insistette mia nonna, andò dall’orefice e comprò una fedina con delle spighe di grano. Quando gliela fece vedere, mia nonna si arrabbiò moltissimo, gli disse, in poche parole “Chi ti ha detto di andare da solo? Questo non è cosa per una ragazza di 20 anni, sono cose che si danno ai fidanzati!”, gli disse in qualche modo così perché lei voleva donarmi un bell’anello, magari con qualche pietra o decorato con qualcosa di carino.»
«Scusa aspetta, questo anello è così piccolo per quale motivo? Tua nonna aveva sbagliato misura?»
«No, lei in realtà per sapere che misura avessi al dito mi fece misurare la sua fede, e la sua fede mi andava nel mignolino, quindi, giustamente, disse a mio nonno di comprarla una misura più grande. Invece il nonno che ha fatto? Gli ha portato la fede all’orefice e mentre quest’ultimo gliene faceva vedere alcuni di quella misura, lui diceva “Ma no è figghiola, na cosa cusì, non esagerati” e allora l’orefice gli mostrava gli anelli più semplici, mio nonno tra questi ha preso quello meno costoso, poi gli ha dato delle diverse misure di quell’anello e per risparmiare, nonno era assai tirchio, ha pensato di comprare la misura più piccola. Prese infine questo anellino dalla misura più piccola al posto della misura che gli aveva detto la nonna, quando se lei lo misurò andò su tutte le furie.
Comunque, dopo avermi raccontato tutto capivo il perché fosse tanto adirata, le continuavo a dire: “Vabbè nonna non vi preoccupate, tanto non c’è problema, non voglio nessun regalo, non mi serve niente” lei insisteva già da che era arrabbiata “Come non vuoi niente? Un regalo, un ricordo della nonna!” insomma, io accettai di avere il regalo per farla stare serena; che poi voleva fare il regalo sia per il diploma e sia per il 16 luglio della Madonna del Carmine. Mi disse di andare da sola a scegliere un anello e io accettai rispondendole che uno di quei giorni ci sarei andata; mi diceva: “Se non ti piace e se non ti va vai e cambialo perché a me non piace”, “se vai dall’orefice te la fai cambiare che poi passa tuo nonno e se la vede lui” e io le rispondevo: “Va bene nonna poi vado non vi preoccupate”. Nei giorni a seguire però lei ha cominciato a stare male, non godeva di ottima salute, era abbastanza cagionevole ed erano più le giornate che passava in ospedale che quelle che passava a casa. Purtroppo il 31 luglio, 15 giorni dopo quella promessa che le avevo fatto, è morta e io non me la sono più sentita di andare a cambiare questa fedina… non l’ho mai messa perché non mi entra, però l’ho tenuta come ricordo di mia nonna, è stata una delle ultime cose che aveva toccato.»
Me ne parlò col cuore in mano, perché continuò a dire di quanto le volesse bene e di quanto fosse legata a lei, tant’è che si era chiusa in casa per un lungo periodo. Posai immediatamente l’anello
Numeri
Prese dal cassetto un fogliettino a quadretti stropicciato, senza che dicessi nulla cominciò a raccontarmi.
«Anche questo risale a dopo che è morta mia nonna. Durante quel primo anno che era venuta a mancare l’avevo sognata, mi era comparsa che era coricata nel letto, come era solita la sua posizione, mi fa “Figghia non sacciu chiddu chi mi ti regalu pi u cumpleannu” (= Figlia, non so cosa regalarti per il compleanno) e io le dicevo “Ma nonna non ti preoccupare non voglio niente”, era tutta preoccupata, poi mi sono svegliata. Mi mancava molto, non ci badai più di tanto, avevo fatto questo sogno e stop, poi non ne parlai. Dopo quattro giorni arriva a casa mio cugino, Totò Legato, che allora lavorava alle poste a Reggio. Qui nella zona di Bova non c’era ancora il gioco del Lotto e queste ruote con i numeri non si conoscevano. Essendo che lui andava a Reggio, aveva preso l’abitudine di giocare i numeri al Lotto, qualche volta aveva pure vinto. Veniva sempre a mangiare lì con noi, per mia mamma era come un altro figlio, faceva sempre un piatto in più e glielo lasciava sempre, lui veniva, mangiava, stava un po’ e poi se ne tornava a casa. Ogni tanto veniva anche anche per vedere la televisione.
Quando venne, era quasi l’una, mia madre disse che era pronto da mangiare e lui rispose: “No zia tranquilla, sono venuto solo per vedere i numeri del Lotto che escono ora all’una e poi me ne vado che devo andare a lavorare, lasciatemi il piatto per sta sera”. Dopo aver sentito che parlava dei numeri gli ho detto: “Totò sai, ho sognato mia nonna e mi diceva che voleva fare il regalo di compleanno” lui si alza dalla sedia e mi fa: “Hai sognato tua nonna? E lei cosa ti ha dato?”, “Non mi ha dato niente, ha detto solo che voleva farmi il regalo di compleanno e non sapeva cosa regalare, poi mi sono svegliata” “Ah si? Vieni qua, ora sviluppiamo subito i numeri, quando uno sogna i morti i numeri si giocano sulla ruota di Bari” “E che numeri devo giocare?” “Come che numeri devi giocare? La data di morte e la data di nascita, se non ti ha dato numeri o altro”. A quel punto ha cominciato a ragionare su sti numeri, mettendo in conto che mia nonna nacque il 2/2/1907 e morì il 31/7/82; ha sviluppato in tutto 5 numeri, alcuni numeri della nascita erano uguali a quelli della morte e alla fine era uscita questa sequenza: 2 – 7 – 31 – 19 – 82. Ci credeva molto a queste cose, d’altronde aveva vinto tante volte, si comprò pure una casa figurati. Mi ha detto dopo averli sviluppati che sarebbe andato a giocarli la settimana prossima.
Io e mia mamma stavamo preparando la tavola e ad un certo punto sentiamo una botta, ero di spalle che stavo cucinando e mi girai di scatto. Cugino Totò minò un pugno sul tavolo talmente forte che spaccò il tavolo – poi lo ha dovuto rifare mia mamma di sopra, ancora ce lo abbiamo, sotto c’è ancora il buco che ha dato lui – “Totò che è successo sei uscito pazzo?” e mi fa “Vieni qua! Perché non me lo hai detto prima?!”, mi prende dalle orecchie e mi porta vicino al tavolo: “Guarda là la tv! Guarda qua questi numeri che abbiamo sviluppato!”.
Ti giuro che quando li ho visti tutti e cinque i numeri come li aveva sviluppati lui e che erano usciti sulla ruota di Bari… fu una cosa spaventosa, veramente spaventosa, mi gelai tutta pure io e lui… mamma mia quante me ne ha dette! Veniva ogni giorno ma io non sapevo niente di numeri, né come funzionassero e né come si giocassero, ha continuato a dire che dovevo dirglielo prima, non dopo quattro giorni. Io mi sono ricordata di raccontargli il sogno perché aveva parlato di numeri e sapevo che lui rapportava i suoi sogni ai numeri che giocava, che ne potevo mai sapere io… mi disse “Questo era il regalo di tua nonna! Questo ti voleva fare! Ti avrebbe sistemata per tutta la vita!”.
Era una cinquina, era sulla ruota giusta… qualche miliardo perdemmo, pensa quanto mi era dispiaciuto.»
«Mi ricordo che me ne avevi parlato, era successo anche con i numeri che gli avevi detto di giocare a papà e poi, quando non erano usciti per quelle settimane gli avevi detto di lasciare stare. La sfortuna però fu che uscirono proprio quando smettesti di giocare»
«Si esattamente, purtroppo con me la fortuna mi è sempre sfuggita, cioè mi sono capitate occasioni fortunate come questa però non le ho colte mai in pieno! Se ancora ci penso mi sento gelare, mia nonna non ha smesso di volermi fare regali neanche da morta.»
Targa dell’amicizia
Quella storia dei numeri del lotto in realtà me la ricordavo perché mia madre ne parla sempre, chi la conosce bene è sicuro che debba sapere questo particolare della sua vita e chi la conosce poco deve essere pronto a saperlo. Presi la targa dorata con supporto di colore blu e, già che c’ero, le chiesi di ricordarmi di cosa di trattasse.
«Finito il liceo andai alla scuola per diventare estetista, avevo ancora un po’ di rimasugli del mio desiderio di fare la parrucchiera, ma alla fine optai per fare l’estetista. Con una mia compagna, Patrizia, ci eravamo messe d’accordo per andare a Torino: lei aveva tutti i suoi fratelli e sorelle e mi aveva proposto di andare insieme a fare una specialistica per quanto riguarda l’estetica, io ero felicissima, finalmente uscivo fuori dalla zona, anche se avevo pensato di andare a Roma, ma comunque Patrizia, tra le tante cose, riuscì a dissuadermi.
Al tempo ancora in famiglia non sapevano cosa fosse un’estetista, poi, quando ho spiegato la situazione a nonna, che c’era Patrizia, che continuavo a studiare sempre qualcosa di attinente con l’arte, che era la cosa che volevo fare ecc. sono riuscita a convincerla, anche perché nonna mi ha sempre appoggiato, al contrario invece di nonno Leo, già solo il fatto che dovessi andare fuori a Torino per lui non andava bene. Come al solito la nonna dovuto lottare con il nonno per farmi andare a Torino.
Questa scuola è durata un anno e all’inizio con Patrizia abitavamo sopra la mansarda di suo zio, mentre sotto stavano le sue sorelle e un fratello, l’altro fratello abitava da un’altra parte. In questo periodo ho conosciuto diversi ragazzi e ragazze, tra cui Maria, che al tempo litigava con la mamma, e Mario, suo fratello; ci organizzavamo spesso in una comitiva.
Dopo un po’ di settimane decidemmo di racimolare qualche soldo, Patrizia aveva fatto anche la scuola per parrucchieri e cercavamo di fare qualcosa, andavamo nella zona di Volvera, tagliavamo i capelli, facevamo le acconciature, le tinte… e in questo contesto abbiamo conosciuto la signora Rosa, la mamma di Maria – lì per lì non lo sapevamo – questa ci aveva trovate simpatiche e ha cominciato a chiamarci sempre, c’era anche Valentino, suo marito che poi poverino è morto di lì a pochi mesi. Ci aveva preso talmente tanto in simpatia che ci offriva cioccolatini, ci chiamava per giocare a monopoli, per mangiare insieme e così via. La signora Rosa e sua figlia non andavano molto d’accordo perché lei non era mai presente a casa, usciva sempre, non aiutava in casa… queste cose diciamo. A me lei a diceva “Ma che brava! Potevi essere tu mia figlia, anziché quella scellerata!” poi alla fine tanto ho fatto che sono riuscita a riappacificarle. Quell’anno, dopo la morte del marito, mi fa “Perché non vieni a stare qui con me a farmi compagnia, ti do una stanza, non ti faccio pagare nemmeno l’affitto, mi farebbe molto piacere”, decisi di farla contenta, anche perché mi conveniva visto che lei mi preparava da mangiare e che lì dove stavo pagavo l’affitto. Mi spostai da lei a settembre, però purtroppo stetti poco perché a novembre mi fui diplomata e tornai giù. Lì con la signora Rosa c’era anche una bambina, Valentina, che si era affezionata a me e mi chiamava sempre per giocare: la sera ci mettevamo io, la signora Rosa, Valentina, Santina, la zia di Valentina, Emilio e la mamma di Santina. Non giocavamo a Monopoli, giocavamo a Pinnacula, io non conoscevo questo gioco, me lo ha insegnato la signora Rosa, e tutte le sere queste belle partite in compagnia non finivano mai.
Quando Maria se ne andò di casa per stare col fidanzato, Claudio, ora suo marito si mise un po’ la testa a posto e, visto che la stanza di Maria era libera, la signora Rosa fece spostare nella sua camera. Ogni tanto venivano sia lei che il fratello, quest’ultimo faceva il panettiere e portava spesso il pane a casa.
A fine novembre dovevo fare gli esami e mi dicevano: “Dove andrai poi?” e io gli facevo: “Me ne vado”, “Come te ne vai? Non ti trovi bene qui con noi?”, “Sì certo che mi trovo bene, ma qui fa troppo freddo e io non resisto”. Io che ero abituata ad un sole che spacca le pietre sono stata là perché dovevo stare, la mattina faceva sempre nebbia e tante volte gli autobus non si fermavano, poi, fortunatamente, siamo riuscite a stringere amicizia con degli autisti di una linea di autobus e gli raccomandavamo di fermarsi quando c’era nebbia, altrimenti saremmo arrivate continuamente in ritardo. Questi autisti quando arrivavano da lontano, era tutto un rettilineo, cominciavano a suonare e quando lo sentivamo ci precipitavamo giù alla fermata, ci caricava e via.
Tornando al discorso della signora, lei non voleva che me ne andassi, mi diceva di trovare un lavoro e di stare lì, ma io non volevo perché non riuscivo a stare con quella nebbia. Con il diploma quelli della scuola mi avevano già trovato il lavoro, ma io rifiutai comunque. Il giorno prima di partire, la signora Rosa, Maria, Mario, Santina, Emilio, la mamma di Santina tutti gli altri vicini, mi avevano organizzato una bellissima festa a sorpresa, c’era pure Renato, un signore che scriveva poesie, me ne aveva dedicata una molto bella che ora purtroppo non ricordo e non riesco a trovare. Tutte quelle persone mi avevano fatto i regali, e questa targa appunto “A Carmela con amicizia Santina, Emilio e mamma” è uno di questi.
Fotografie del Teatro
Posò la targa e mi fece vedere alcune fotografie, che in realtà già avevo visto e rivisto perché, ovviamente, mia madre non è una sconosciuta per me, molte cose che raccontava adesso già le sapevo, però è sempre interessante.
«Mamma, ma se sei tornata da Torino come mai te ne sei voluta andare di nuovo?»
«E qua che facevo? C’erano troppe critiche e non si poteva stare in santa pace, chi ti criticava di qua e chi ti criticava di là. Poi io all’epoca ero un po’ ribelle, mi avevano messo sotto a lavorare, a dare da mangiare alle galline, a raccogliere le olive… a fare in pratica le stesse e identiche cose di quando ero bambina, e a 25 anni dovevo stare ancora lì a subire? Ma assolutamente no. Un giorno chiamai la nonna e le dissi: “Guarda mamma, io qui non posso stare, me ne vado o a Roma o a Firenze” e lei: “Ma come vai senza lavoro, senza niente?” e io le risposi: “Non mi interessa! Voglio partire perché qui non c’è lavoro per me”.
Quando ha capito che ero determinata, la nonna ha chiamato zio Mimmo a Firenze e gli ha chiesto di procurarmi un posto letto, lui si è messo subito all’opera. Fortunatamente me lo trovò, e con i soldi che avevo guadagnato l’estate lavorando al Boschetto mi ero comprata una macchina di seconda o terza mano, una Renault 5 bianca, con l’intenzione di partire. La nonna mi aveva fatto: “Ma tu sei pazza vuoi andare fino a Firenze con la macchina da sola?”, “Si, ci voglio andare”, “Sola non ti ci mando, se ci devi andare vengo pure io” e così mi fece compagnia, ma io sarei partita pure da sola, così all’avventura, come effettivamente stavo facendo.
Nel 1987, mi sono quindi trasferita a Firenze, conobbi gli amici di zio Mimmo e iniziai a cercare lavoro. Non fu affatto facile all’inizio: vendevo aspirapolvere porta a porta, libri porta a porta, facevo colloqui ecc. Un giorno decisi di scrivere un annuncio di lavoro su un giornale, questo giornale si chiamava La Pulce, ho scritto che cercavo un lavoro da estetista, io avevo tutte le certificazioni quindi ci speravo. Dopo un po’ di tempo mi chiamò un signore che disse di volermi ingaggiare come insegnante di trucco in una scuola di fotomodelli, all’inizio pensavo mi prendesse in giro, poi c’era Ester, una ragazza anche lei calabrese, che diceva di conoscere questa scuola e si propose di accompagnarmi.
Questo signore dopo la prova mi prese subito a lavorare come insegnante di trucco e ho iniziato a guadagnare un pochino di più, in questi corsi c’era una ragazza, il cui padre era impresario e lavorava per i teatri di Firenze, che mi dice”Sai Carmen, al teatro comunale di Firenze stanno cercando truccatori e parrucchieri, perché non vai?” ho pensato di andare a vedere, e come infatti quando mi sono recata all’ufficio di collocamento mi sono informata a riguardo. Andai alle 11:00 e uscii alle 12:00, il responsabile mi diede un foglio e io gli chiesi: “Mi scusi, cosa devo fare con questo foglio?” e lui, con l’accento tutto fiorentino: “Come cosa deve fare signorina? Deve andare a lavorare, alle 17:00 si deve presentare al teatro comunale!”, io fui rimasta basita perché così senza fare prove senza fare colloqui non sapevo cosa aspettarmi.
Ci andai poi il pomeriggio alle 17:00 al teatro comunale e c’era questo impresario, il dottor Cipriani, me lo ricordo come se fosse ieri, che mi consegnava un modulo: “Signorina questo è il lavoro, questo c’è da fare”. E così, dalla mattina alla sera avevo incredibilmente già risolto; lasciai il lavoro alla scuola di fotomodelli perché ormai avevo questo al teatro comunale, guadagnavo bene e facevo ciò che mi piaceva fare, anche se l’ambiente mi era estraneo, io di teatro lirico soprattutto non conoscevo quasi nulla, figurati. Ero stata chiamata per fare da truccatrice nel Maggio Musicale Fiorentino, una manifestazione molto importante per Firenze che dura da aprile fino alla festa di San Giovanni, il patrono di Firenze. Fu bellissimo lavorare all’interno di quell’evento.
Le esibizioni che mi sono rimaste più impresse sono state: Il Trovatore con Pavarotti e il Don Giovanni con Katia Ricciarelli. In questi anni ho conosciuto pure Pippo Baudo.
Una scena in particolare che ricordo è che alla fine del Don Giovanni, io e la mia collega andammo dietro le quinte dove c’era un tavolo immenso, imbandito con calici, posate d’argento… e al centro di tutto c’era un enorme tacchino, volevamo andare a fare la foto con quel tacchino perché era troppo forte, però in quel momento c’erano alcuni protagonisti di scena. Persone appunto famose, ma che io non conoscevo perché aimè ignoravo completamente questo mondo. In una di queste foto c’era Zubin Metha, ma noi volevamo farci la foto col tacchino, mica con Zubin Metha!
«Mi sembra giusto certo, tra fare una foto con Zubin Metha e un tacchino, tu scegliesti un taccino…» guardai malissimo lei e quella foto. In realtà mi veniva da ridere.
«Ma poi erano già tutti famosi e io non conoscevo nessuno. C’è da dire anche, ora che ci penso, che in quel periodo la Ricciarelli aveva steccato, la voce non le andava bene e alla fine l’aveva sostituita al ruolo una cantante, Mirella Freni. Ti voglio raccontare questo episodio che già sai, ma visto che ci siamo te lo ripeto: Siccome il Trovatore era da tanti anni che non lo facevano nel Maggio Musicale Fiorentino, alla prima dell’esibizione con Pavarotti quelli che potevano venire erano solo degli invitati.»
«Aspetta, questo fatto non me lo ricordo, chi erano gli invitati?»
«Firenze era blindata quel giorno, io siccome avevo la bicicletta andavo con quella in giro per la città e quel giorno dovevo passare per andare a lavorare, mi avevano dato un pass, però poi i carabinieri mi bloccarono per qualche minuto dicendo che non potevo entrare, all’inizio non mi credevano. Immagina che scena esilarante! Giustamente in un evento del genere dove andava solo gente ricca e scortata all’interno di macchinoni, una tizia in bicicletta suonava strano. Di invitati chi c’era aspetta… c’era il presidente della Repubblica che era Cossiga, poi c’erano anche Carolina di Monaco, Ranieri di Monaco, Berlusconi che ancora non era entrato in politica, Spadolini… insomma tutti personaggi della politica, imprenditori, nobili ecc. quel giorno spostammo un po’ le tende e vedemmo tutti gli invitati con vestiti sfarzosi, abiti lunghi, acconciature con cappellini…. c’erano tanti di quei colori in quel teatro che sembrava splendere! Ora, non è che io mi ricordi molto, però c’erano molte delle celebrità di quel periodo. Io, come la maggior parte dei colleghi, mangiavo alla mensa del teatro, che poi tanto mensa non era perché era un ristorante raffinato e mangiavi la qualunque con 2.000 lire.
Io avevo truccato Pavarotti per precisare, gli avevo annerito la barba col mascara mi ricordo, perché i peli della barba li aveva molto più chiari di come apparivano in televisione, alcuni erano pure biondi. Alla fine del Trovatore espresse il desiderio di voler andare a mangiare in questo ristorante del teatro insieme a tutti noi e lo abbiamo conosciuto tutti di persona, parlato con lui, gli abbiamo stretto la mano. Avevamo fatto tantissime foto. Ma allora non c’erano i telefonini e dovevamo portare i rullini a farli stampare. Quel disgraziato del negozio mi disse che le fotografie si erano bruciate, sicuramente quando ha visto che nelle foto c’era Pavarotti se le sarà tenute lui, non sono riuscita ad avere una sola di quelle foto con Pavarotti, l’unica cosa che mi è rimasta è una foto che dava lui con la dedica e l’autografo… più i ricordi della memoria.»
La dedica a cui si riferiva è appesa nel corridoio del suo studio da estetista insieme ad altre foto, anche se non sono nel cassetto, le inserisco comunque all’interno di questo scritto.
Conclusioni
Piano piano riordinammo tutti gli oggetti fuori posto, sapevo che aveva ancora molto da mostrare, ma purtroppo il tempo è nemico delle piacevoli conversazioni. Anche se la vita di mia madre è stata un ciclo continuo di andata e ritorno al luogo della sua nascita, infatti dopo Firenze lei si è ritrasferita qui per aprire un’attività tutta sua, è stata allo stesso tempo un perpetuo mettersi in gioco. Ho voluto parlare di lei e scrivere di questo episodio per dimostrare come dei semplici oggetti rinchiusi in un cassetto possano essere i testimoni di una vita passata a seguire la libertà al di fuori dei propri confini.
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